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Permafrost in crisi, politica in stallo: il climate change che avanza sotto i nostri piedi

Il riscaldamento del permafrost montano interessa vaste porzioni dell’Europa alpina e nordica: cosa dice lo studio di “Nature”
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Permafrost in crisi, politica in stallo: il climate change che avanza sotto i nostri piedi

Il cambiamento climatico non si manifesta solo con eventi estremi e scenari spettacolari: spesso avanza silenzioso, sottotraccia, destabilizzando gli equilibri profondi del nostro ambiente. È il caso del riscaldamento del permafrost montano, una trasformazione invisibile ma cruciale che interessa vaste porzioni dell’Europa alpina e nordica.

A partire da un importante studio pubblicato su “Nature”, questo articolo analizza i dati raccolti in dieci anni di monitoraggio, evidenziando tendenze preoccupanti e cambiamenti già in atto: il recente crollo del ghiacciaio Birchgletscher, in Svizzera, diventa l’emblema di un rischio reale e sistemico, che riguarda geologia, clima, insediamenti e sicurezza.

Ma mentre la scienza accumula prove e propone raccomandazioni tecniche concrete, la politica continua a rispondere con dichiarazioni d’intenti prive di visione e operatività.

Ne emerge un doppio divario: tra ciò che sappiamo e ciò che facciamo, e tra ciò che potremmo prevenire e ciò che continueremo a rincorrere.

Riscaldamento permafrost: la quiete dopo la tempesta

Succede sempre così, non è vero?
Quando è passata la tempesta, “torna il lavoro usato”: la routine quotidiana, la “normalità”, che nella prassi ambientale significa smettere di gestire l’emergenza non per intervenire strutturalmente sui problemi, ma per barcamenarsi fino alla prossima emergenza.

È questo il modo di intendere il rapporto fra l’uomo e l’ambiente (più o meno) a tutte le latitudini: uno degli ultimi esempi riguarda il crollo di un ghiacciaio Birch, che ha quasi completamente sommerso un piccolo villaggio nel Canton Vallese, in Svizzera, i cui 300 abitanti per fortuna erano stati evacuati in anticipo.

Un classico esempio di cambiamento climatico, con buona pace dei negazionisti.
Il cambiamento climatico, però, non agisce solo quando fa notizia: non ha bisogno del disastro per continuare.
Il climate change lavora sottotraccia

Un cambiamento che si insinua sotto i nostri piedi, dal Manzanarre al Reno

In ambito geologico, il termine permafrost indica uno strato di suolo che rimane permanentemente congelato per almeno due anni consecutivi, a partire da una profondità di qualche metro. Introdotto nel 1943 dal geologo statunitense S. W. Muller, il concetto si applica a vaste aree del sottosuolo situate principalmente ad alte latitudini e altitudini. Si stima che il permafrost interessi circa un quinto delle terre emerse nelle regioni poste oltre i 60° di latitudine nord, e che si sviluppi anche, indipendentemente dalla latitudine, nelle zone montuose più elevate del Pianeta.

In Europa, interessa il 30% delle superfici permafrost globali e si estende dalle Alpi alle (Piramidi, dal Manzanarre al Reno) Svalbard, dalla Sierra Nevada ai rilievi scandinavi.

Fino a poco tempo fa, mancava uno studio sistematico e coordinato a livello continentale: oggi, grazie a un’analisi decennale condotta su 64 perforazioni profonde fino a 20 metri, possiamo finalmente quantificare il fenomeno.
E ciò che emerge è tutt’altro che rassicurante.

Lo studio di “Nature”: una rete profonda nel tempo e nello spazio

Il permafrost montano, che rappresenta il 30% dell’intera area di permafrost a livello globale, è particolarmente sensibile ai cambiamenti climatici e influisce in modo rilevante sugli ecosistemi e sulle comunità montane.

Inizia con queste parole un recente studio pubblicato sul sito di “Nature” (il titolo è evocativo: “Enhanced warming of European mountain permafrost in the early 21st century”), che analizza il riscaldamento accelerato del permafrost nelle montagne europee nel XXI secolo, utilizzando dati decennali di temperatura del suolo provenienti da sessantaquattro perforazioni effettuate, come accennato, nelle Alpi, in Scandinavia, in Islanda, nella Sierra Nevada e alle Svalbard.

Nel periodo 2013–2022, i tassi di riscaldamento a 10 metri di profondità hanno in alcuni casi superato 1 °C per decennio, superando in generale le stime precedenti a causa dell’accelerazione del riscaldamento e dell’utilizzo di un set di dati più ampio e completo.

Un riscaldamento significativo del permafrost si è verificato in siti con substrato roccioso freddo e povero di ghiaccio, ad alta quota e ad alte latitudini, con tassi paragonabili all’aumento della temperatura dell’aria superficiale.

Al contrario, negli strati ricchi di ghiaccio con temperature prossime a 0 °C, “gli effetti del calore latente rallentano il riscaldamento e nascondono trasformazioni importanti nei substrati del permafrost montano. I modelli di riscaldamento osservati risultano coerenti in tutti i siti, a diverse profondità e in tutti i periodi analizzati. Per i prossimi decenni, la propagazione del riscaldamento del permafrost verso profondità maggiori risulta in gran parte già determinata”.

Il caso Birchgletscher: un indicatore strategico

Il crollo del ghiacciaio Birchgletscher, avvenuto il 28 maggio 2025 nel Canton Vallese, rappresenta un evento emblematico delle trasformazioni in atto nelle regioni alpine a causa del riscaldamento climatico.

Il Birchgletscher, situato nella Lötschental, è stato oggetto di monitoraggio per anni a causa della sua instabilità: negli anni precedenti al crollo, il ghiacciaio aveva mostrato un avanzamento insolito di circa 50 metri, attribuito all’accumulo di detriti rocciosi che ne avevano aumentato la massa e isolato termicamente la superficie, rallentando la fusione.

Il 28 maggio 2025, una serie di frane ha depositato milioni di tonnellate di roccia sul ghiacciaio, aumentando la pressione e destabilizzandolo: questo ha portato al distacco di una massa di ghiaccio e detriti che ha seppellito gran parte del villaggio di Blatten, causando danni ingenti.

Gli esperti, tra cui il professor Christophe Lambiel dell’Università di Losanna, hanno indicato che il degrado del permafrost, accelerato dal riscaldamento globale, ha reso instabili le pareti rocciose sovrastanti il ghiacciaio, contribuendo al disastro.

Il “Lambiel pensiero” in sintesi

Secondo Lambiel, la dinamica osservata rappresenta una sequenza del tutto inedita: una frana originatasi in quota ha innescato una serie di crolli successivi che hanno sovraccaricato un ghiacciaio già in movimento. Questo accumulo di detriti ha ulteriormente accelerato la massa glaciale, fino a provocarne il collasso. Si è trattato, ha spiegato, di un vero e proprio crollo glaciale, generato dall’interazione fra l’instabilità della montagna e quella del ghiacciaio stesso. La fragilità dell’area, ha aggiunto, è riconducibile a una combinazione di fattori geologici e climatici: il versante interessato era già da tempo soggetto a un lento scivolamento, che però ha subito una marcata accelerazione nei giorni immediatamente precedenti all’evento.

Un ciclo stagionale sempre meno prevedibile

Tornando ai dati emersi dallo studio, un aspetto particolarmente significativo riguarda l’evoluzione stagionale del riscaldamento del permafrost.

Non si tratta più di un fenomeno confinato ai mesi estivi: l’analisi condotta su base mensile mostra come il contributo maggiore all’aumento delle temperature si stia progressivamente spostando verso l’autunno e la tarda estate.

Se nel ventennio 2003–2022 era stato l’inverno a guidare l’accelerazione termica — soprattutto alle alte latitudini come Svalbard e Scandinavia — negli ultimi anni è il cambiamento della copertura nevosa a rivelarsi decisivo.

L’assenza di neve precoce espone il suolo nudo a una maggiore radiazione solare, innescando processi di riscaldamento più intensi e duraturi, che variano in funzione di fattori come altitudine, esposizione, morfologia e composizione del suolo: il risultato è un ciclo stagionale sempre meno riconoscibile, in cui il permafrost non ha più tempo né modo di ricompattarsi.

Riscaldamento permafrost, ritardi e lacune: cosa non è stato fatto

Non possiamo dire di non essere stati avvisati in tempo.
I segnali c’erano, così come c’erano i dati (satelliti, carotaggi, sensori, modelli previsionali) e gli allarmi della comunità scientifica, le raccomandazioni degli enti glaciologici, le immagini della ritirata dei ghiacci.

Eppure, si è scelto di procedere come se tutto fosse reversibile, gestibile, lineare. Si è preferito relegare il rischio climatico alla cronaca, spezzettarlo in emergenze territoriali, neutralizzarlo nel linguaggio: “eventi estremi”, “stagioni anomale”, “incidenti isolati”.

Si è praticata una retorica della resilienza che ha giustificato l’inazione strutturale, come se adattarsi significasse semplicemente sopportare.

Nel frattempo, nessuna strategia di adattamento climatico degna di questo nome è stata sviluppata e attuata su scala sovranazionale: le Alpi non sono ancora considerate un sistema fragile e interconnesso, ma un paesaggio economico da sfruttare e contenere a compartimenti stagni.

I piani di prevenzione si moltiplicano a livello locale, ma senza integrazione, senza continuità, senza risorse, mentre la ricerca scientifica ha continuato a produrre scenari, metriche e indicatori, troppo spesso rimasti sulla carta, ignorati da una governance che rincorre l’urgenza, senza mai affrontarne le cause.

Il risultato è sotto i nostri occhi — o, peggio, sotto i nostri piedi. E non è un crollo isolato, ma un’erosione silenziosa di equilibrio, responsabilità e visione (non solo) politica.

Raccomandazioni vs. dichiarazioni d’intenti

Gli autori dello studio sono chiari: il riscaldamento del permafrost non si contrasta con dichiarazioni d’intenti, ma con una visione sistemica, tecnica, continuativa.

Da qui una serie di raccomandazioni.
La prima raccomandazione riguarda la continuità del monitoraggio: le perforazioni e i sensori devono essere mantenuti operativi per almeno 30–50 anni, perché è su queste scale temporali che si manifestano le transizioni più critiche. Non servono solo nuovi dati: serve dare continuità a quelli esistenti.

La seconda riguarda la standardizzazione internazionale: la recente guida della WMO sulla misura delle temperature del permafrost è un passo avanti, ma va implementata, integrata nei quadri normativi nazionali, finanziata. Non può restare un riferimento tecnico ignorato dai decisori politici.

Terzo punto: i dati devono circolare. Troppi ancora oggi restano chiusi nei database di singoli istituti o programmi, frammentari, inaccessibili.

Infine, la raccomandazione più importante: il permafrost va portato dentro le politiche di adattamento climatico, non lasciato ai margini come fenomeno “tecnico” da esperti. Serve integrarlo nei piani di gestione del rischio valanghe, nella progettazione infrastrutturale, nella valutazione degli impatti sui bacini idrici, nella protezione delle comunità montane.

Contrastare il riscaldamento del permafrost, passando all’azione

Tradotto in azione, questo significa:

  • espandere la rete di osservazione, non solo per sapere, ma per intervenire per tempo;
  • ripensare la pianificazione territoriale, evitando nuove edificazioni in aree instabili e preparando evacuazioni tempestive dove necessario;
  • ridurre le emissioni alla radice, perché tutto parte — ancora — da lì;
  • informare, formare, coinvolgere le comunità locali, rendendole parte attiva nella lettura e gestione del territorio.

Non è una rivoluzione.
Si chiama “manutenzione del futuro”.

Attenzione alle parole!

C’è una differenza sottile, ma decisiva, tra ciò che si dice e ciò che si fa.
Fra le dichiarazioni d’intenti e le raccomandazioni operative.

Le prime abbondano: “Dobbiamo agire per il clima”, “L’ambiente è una priorità”, “Puntiamo a zero emissioni”. Frasi che suonano bene in un discorso, che riempiono un comunicato stampa, che tranquillizzano l’opinione pubblica. Ma restano affermazioni generiche, aspirazionali, slegate da qualsiasi vincolo reale. Non dicono come si vuole intervenire, quando, con quali strumenti, con quali risorse. Sono promesse a orologeria, che spesso si esauriscono nell’attimo in cui vengono pronunciate.

Le raccomandazioni, invece, sono un’altra cosa.
Non parlano al futuro, parlano al “presente operativo”: sono indicazioni precise, fondate su dati, osservazioni, competenze tecniche, che spiegano cosa si dovrebbe fare, come farlo, e in che tempi.
Chiedono continuità, coerenza, budget e una Politica, non solo retorica.

Le raccomandazioni arrivano da chi studia, misura, valuta: scienziati, centri di ricerca, enti di standardizzazione. Come nel caso dello studio sul permafrost: non un elenco di auspici, ma un piano di azione articolato, che tocca manutenzione, standard internazionali, condivisione dei dati e integrazione nei piani di adattamento.

Nel dibattito ambientale, però, queste due dimensioni si confondono troppo spesso. Le dichiarazioni d’intenti vengono scambiate per risposte operative, mentre le raccomandazioni autentiche restano inascoltate, ignorate, disinnescate.
È la politica del “fare finta di fare”, dove le parole coprono l’inazione e il tempo scorre, inesorabile, sotto i nostri piedi che si scaldano.
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