Meduse, alghe e posidonie spiaggiate: l’interramento e’ reato?
L’interramento “in sito” di posidonie e meduse depositate sulla battigia a seguito di mareggiate o altre cause naturali è consentito in deroga al D.Lgs. n.205/2010, a condizione che venga realizzato senza trasporto né trattamento. Diversamente si rischia la condanna per realizzazione di una discarica abusiva (articolo 256, comma 3, D.Lgs. 152/2006). E’ quanto afferma la Cassazione penale con la sentenza 28 gennaio 2015, n.3943.
La fattispecie oggetto della sentenza in epigrafe è molto particolare. Infatti, si discute della realizzazione di una discarica di alghe marine e altri rifiuti di varia natura.
L’imputato in ricorso deduceva la violazione di legge in quanto sarebbe stato applicabile l’art. 39, comma 11, D.Lgs. n. 205/2010, che consente l’interramento in sito della posidonia e delle meduse spiaggiate. Infatti, il ricorrente sosteneva che, avendo rinvenuto sull’arenile, perché portate dalle mareggiate, alghe ed altri rifiuti, se ne sarebbe reso necessario il momentaneo trasporto in altro sito limitrofo al fine di procedere alla separazione di quanto avrebbe potuto essere interrato.
Aggiungeva che, nella sentenza impugnata, sarebbe stata altrettanto erroneamente esclusa l’applicabilità della disciplina del deposito temporaneo, non considerando, peraltro, che i rifiuti erano stati rinvenuti all’interno di un complesso turistico, ove non avrebbero potuto essere lasciati, perché si sarebbe creata una situazione di degrado che non avrebbe consentito la ricezione degli ospiti.
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile.
La Corte ha ricordato prima di tutto che l’art. 39, comma 11, D.Lgs. n. 205/2010 stabilisce che, fatta salva la disciplina in materia di protezione dell’ambiente marino e le disposizioni in tema di sottoprodotto, laddove sussistano univoci elementi che facciano ritenere la loro presenza sulla battigia direttamente dipendente da mareggiate o altre cause comunque naturali, è consentito l’interramento in sito della posidonia e delle meduse spiaggiate, purché ciò avvenga senza trasporto né trattamento.
In secondo luogo, ha ricordato che, secondo l’art. 183, lett. bb) D.Lgs. n. 152/2006 per deposito temporaneo si intende il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti o, per gli imprenditori agricoli di cui all’articolo 2135 del codice civile, presso il sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa agricola, ivi compresi i consorzi agrari, di cui gli stessi sono soci, a determinate condizioni dettagliatamente specificate.
Orbene, la Cassazione ha notato che nessun elemento concreto risultava addotto dal ricorrente, il quale si era limitato a considerazioni meramente congetturali circa il destino dei rifiuti.
In particolare è stato ribadito, per ciò che riguarda il disposto dell’art. 39, comma 11, che: la disposizione riguarda soltanto la posidonia e le meduse spiaggiate, con esclusione, quindi, di ogni altro materiale o sostanza; la loro presenza sulla battigia deve dipendere direttamente da mareggiate o altre cause comunque naturali, non potendosi, quindi, contemplare altra origine e, in particolare, l’azione dell’uomo; l’unica attività consentita è l’interramento; tale attività deve essere effettuata “in sito” e, cioè, nello stesso luogo ove posidonia e meduse spiaggiate sono state rinvenute, senza alcuna possibilità di trasporto o trattamento.
Pare evidente che il riferimento al trasporto deve considerarsi come riguardante la tipica attività di gestione indicata dall’art. 183, lett. n) D.Lgs. n. 152/2006 così come quello al trattamento va considerato in relazione alla definizione di cui alla lettera s) del medesimo articolo, cosicché devono ragionevolmente ritenersi ammissibili quelle operazioni meramente preparatorie dell’interramento in sito.
E’ stato conseguentemente affermato il principio secondo il quale l’applicabilità della disciplina derogatoria di cui all’art. 39, comma 11, D.Lgs. n. 205/2010 è subordinata alla prova positiva della sussistenza di tutti i presupposti individuati dalla legge.
Nel caso in esame, non soltanto non era stata fornita la prova in ordine all’esistenza dei presupposti di applicabilità del deposito temporaneo e dell’art. 39, comma 11, ma risultava ampiamente dimostrata la loro plateale insussistenza.
I giudici del merito infatti avevano rilevato, sulla base del verbale di sequestro e della documentazione fotografica presente in atti, che su un terreno di proprietà della società della quale il ricorrente era legale rappresentante erano stati rinvenuti rifiuti non pericolosi consistenti in “alghe marine e rifiuti provenienti da scarti di edilizia per circa 45/50 mc, miscelati tra loro e spianati sul terreno in assenza di autorizzazione”.
Orbene, pur volendo considerare che il riferimento alle “alghe” contenuto in sentenza ed in ricorso fosse frutto di un’erronea qualificazione della posidonia, che pur essendo una pianta e non un’alga, come tale viene frequentemente definita, è evidente il difetto delle condizioni di applicabilità dell’art. 39, comma 11, considerato, come correttamente osservato dai giudici del gravame, che le “alghe” erano state trasportate in altro sito, ancorché prossimo al luogo del rinvenimento, ma comunque diverso ed erano state miscelate con rifiuti provenienti da demolizioni edili.
La circostanza che i rifiuti fossero stati “spianati” sul terreno rendeva del tutto insostenibile la tesi prospettata dal ricorrente, il quale sosteneva che anche i rifiuti da demolizione sarebbero stati trasportati sulla battigia da mareggiate e che vi sarebbe stata l’intenzione di separare ciò che poteva essere interrato (le “alghe”) dal restante materiale.
Parimenti corretta appariva l’ulteriore osservazione della Corte territoriale in ordine alla inapplicabilità della disciplina del deposito temporaneo in ragione della distinzione fisica tra la battigia ed il luogo di deposito, cui si aggiungeva, stante quanto accertato nel giudizio di merito, la mancata effettuazione del deposito per categorie omogenee e, sopratutto, l’avvenuto spianamento dell’area di deposito, evidentemente sintomatico di un definitivo stoccaggio.
A giudizio della Cassazione, le pertinenti osservazioni dei giudici dell’appello rendevano superflua ogni ulteriore considerazione della tesi difensiva, da ritenersi implicitamente disattesa stante la sua evidente incompatibilità con le circostanze e le emergenze processuali ritenute determinanti per la formazione del loro convincimento.
La Corte ha infatti osservato che quanto accertato in fatto impediva anche di prendere in considerazione l’eventuale applicabilità, al caso in esame, dell’art. 183, lett. n) D.Lgs. n. 152/2006 come modificato dal D.L. 24 giugno 2014, n. 91, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 116, laddove si specifica che “non costituiscono attività di gestione dei rifiuti le operazioni di prelievo, raggruppamento, cernita e deposito preliminari alla raccolta di materiali o sostanze naturali derivanti da eventi atmosferici o meteorici, ivi incluse mareggiate e piene, anche ove frammisti ad altri materiali di origine antropica effettuate, nel tempo tecnico strettamente necessario, presso il medesimo sito nel quale detti eventi li hanno depositati”.
Perciò correttamente era stato qualificato il fatto come realizzazione di discarica non autorizzata.
A tale proposito la sentenza ha ribadito che una definizione giuridica della discarica è rinvenibile nell’articolo 2, comma primo, lettera g) D.Lgs. n. 36/2003, ove si afferma che per discarica deve intendersi un’area “adibita a smaltimento dei rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo, compresa la zona interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del produttore degli stessi, nonché qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno”.
La richiamata disposizione specifica, inoltre, che “sono esclusi da tale definizione gli impianti in cui i rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in un impianto di recupero, trattamento o smaltimento, e lo stoccaggio di rifiuti in attesa di recupero o trattamento per un periodo inferiore a tre anni come norma generale, o Io stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore a un anno”, consentendo così, grazie all’indicazione del dato temporale, di distinguere la discarica da altre attività di gestione (anche se lo stesso, come si è ritenuto nel caso di protrazione del deposito dei rifiuti per un periodo superiore all’anno, non individua un elemento costitutivo della fattispecie).
La giurisprudenza si è ripetutamente impegnata nell’individuazione del concetto di discarica con riferimento al reato di cui al terzo comma dell’articolo 256 sottolineandone, ad esempio, la differenza con la nozione di “smaltimento” e rilevando che trattasi di due attività diversamente disciplinate, perché, pur avendo in comune talune operazioni (quali il conferimento dei materiali e il loro deposito), si differenziano radicalmente: nello smaltimento i rifiuti vengono interamente sfruttati a scopo di profitto con specifiche modalità (cernita, trasformazione, utilizzo e riciclo previo recupero), nella discarica, invece, i beni non ricevono alcun trattamento ulteriore e vengono abbandonati a tempo indeterminato, mediante deposito ed ammasso. Si ha quindi discarica abusiva “tutte le volte in cui, per effetto di una condotta ripetuta, i rifiuti vengono scaricati in una determinata area, trasformata di fatto in deposito o ricettacolo di rifiuti con tendenziale carattere di definitività, in considerazione delle quantità considerevoli degli stessi e dello spazio occupato”.
Invece, la differenza con il mero abbandono di rifiuti è stata individuata evidenziando la natura occasionale e discontinua di tale attività rispetto a quella, abituale o organizzata, di discarica.
La discarica abusiva dovrebbe presentare, tendenzialmente, una o più tra le seguenti caratteristiche, la presenza delle quali costituisce valido elemento per ritenere configurata la condotta vietata: accumulo, più o meno sistematico, ma comunque non occasionale, di rifiuti in un’area determinata; eterogeneità dell’ammasso dei materiali; definitività del loro abbandono; degrado, quanto meno tendenziale, dello stato dei luoghi per effetto della presenza dei materiali in questione.
Si è ulteriormente precisato che il reato di discarica abusiva è configurabile anche in caso di accumulo di rifiuti che, per le loro caratteristiche, non risultino raccolti per ricevere nei tempi previsti una o più destinazioni conformi alla legge e comportino il degrado dell’area su cui insistono, anche se collocata all’interno dello stabilimento produttivo.
Date tali premesse, i giudici dell’appello avevano correttamente evidenziato che la destinazione dell’area a discarica era dimostrata dalla documentazione fotografica, risultando del tutto evidente che la miscelazione dei rifiuti tra loro e lo spianamento dell’area ove gli stessi insistevano evidenziavano in maniera inequivocabile l’intenzione di una definitiva collocazione sul posto.
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– “La posidonia, una risorsa per la campagna” , in Agrenews.info
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L’autore
Vincenzo Paone
Dal 1979 in magistratura, attualmente svolgo la funzione di Sostituto Procuratore della Repubblica in Asti.
Mi sono sempre occupato della materia relativa all’inquinamento (con riferimento ai rifiuti, all’acqua, all’aria), della materia edilizia/urbanistica e della sicurezza ed igiene sul lavoro.
Ho pubblicato nel 1993, presso la casa editrice UTET, il volume “I reati in materia di inquinamento”, facente parte della collana “Giurisprudenza sistematica di diritto penale” a cura di Bricola e Zagrebelsky; nel 2008 ho pubblicato presso la casa editrice Giuffrè, il volume “La tutela dell’ambiente e l’inquinamento da rifiuti”; nel 2011 presso la casa editrice CEDAM, ho collaborato al volume “La tutela dell’ambiente. Profili penali e sanzionatori”, con il capitolo “La gestione dei rifiuti: i reati”.
Collaboro stabilmente alla rivista Ambiente e sviluppo.

