Responsabilità amministrativa della persona giuridica: tesi difensive e decisioni dei giudici nel processo di appello ThyssenKrupp
Il processo e il quadro normativo
Nel quadro degli aggiornamenti sul processo ThyssenKrupp in corso a Torino, si presenta un approfondimento inerente un passaggio assai complesso e delicato della strategia difensiva posta in atto dai legali della multinazionale, basata sull’affermazione che non sussistesse responsabilità di quest’ultima D.Lgs. 231/2001, giacché le morti dei sette lavoratori nella tragica notte del 6 dicembre 2007 sarebbe giuridicamente riassorbita nella circostanza aggravante di cui all’art. 437 c.p., secondo comma. In altre parole, tali decessi non sarebbero da punire a titolo di omicidio colposo, bensì di disastro come circostanza aggravante dell’omissione dolosa di cautele antinfortunistiche.
Sul punto, la questione da dibattere è quantomai delicata e complessa, e solo in parte è stata sciolta dalla lettura del dispositivo di appello. Si presentano dunque le linee generali della questione stessa, illustrando poi in chiusura quali sue parti siano ormai risolte dal dispositivo stesso e per quali, invece, sia necessario attendere la pubblicazione delle motivazioni.
Perno normativo su cui ruota tale specifica linea difensiva è il D. Lgs. 231/2001, che, nel delineare la responsabilità amministrativa della persona giuridica in relazione ai delitti commessi dai suoi legali rappresentanti o da altre figure interne ad essa, elenca una serie di specifici reati a fronte dei quali tale responsabilità sussiste. Serie certamente molto prolissa, e soprattutto allungata con arruffate novelle che dal 2001 si sono succedute al ritmo di circa una all’anno; ma serie pur sempre tipica, nella quale il delitto di disastro non è ricompreso. Elemento che, a fronte dell’assoluto divieto di analogia in materia penale, funge da alveo alla tesi difensiva esposta in premessa.
La morte come conseguenza di altri delitti
Tale tesi difensiva afferisce la situazione giuridicamente sempre delicatissima in cui l’evento morte si verifica non nel quadro di un’ordinaria fattispecie di omicidio, bensì come evoluzione a vario titolo di una condotta criminosa differente.
Le ragioni e le modalità per le quali ciò si verifica possono, naturalmente, essere di varia natura.
Il caso più classico, in tal senso, è rappresentato dalla c.d. ; vale a dire dal caso in cui, a fronte del dolo di un certo reato, per circostanze accidentali finisce per verificarsi un reato diverso. Il caso è regolato in via generale dall’art. 83 cod. pen.; senonché, qualora il reato diverso verificatosi implichi l’evento morte, alla disciplina così dettata supplice l’apposito art. 586.
Stabilisce tale articolo che «Quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’articolo 83, ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono aumentate».
Per altro verso, la morte può essere individuata come circostanza aggravante di un determinato reato. E questo è il caso – oltre che di numerosissime altre disposizioni del codice penale – proprio dell’art. 437. Il quale, al suo secondo comma, sancisce che, se dalla rimozione dolosa di cautele antinfortunistiche deriva un disastro o un infortunio, la pena è aumentata.
Se, dunque, si sono richiamati gli artt. 83 e 586 del codice penale, non è perché essi si applichino direttamente al caso in questione, bensì perché essi, combinati tra loro, rappresentano il sistema normativo di riferimento da applicare per tutti i casi in cui – a qualunque titolo – la morte sopraggiunga nel quadro di uno schema giuridico diverso da quello del reato di omicidio.
Il problema dell’elemento soggettivo
Caratteristica di tutte le norme finora citate – e di tutte le altre nelle quali l’evento morte è dettato come circostanza aggravante – è il fatto di occuparsi esclusivamente degli elementi oggettivi del reato: in altre parole, della condotta e dell’evento.
Nulla o quasi si dice invece dell’elemento soggettivo, in relazione al quale l’unica implicita precisazione è il fatto che la morte in questione non sia voluta dall’agente. Ché, se lo fosse, si imporrebbe senz’altro l’applicazione delle norme sull’omicidio doloso in concorso con gli altri reati in questione.
Sgombrato dunque il campo dall’ipotesi del dolo, quale elemento soggettivo deve illuminare l’evento morte verificatosi alla luce di tali premesse?
La dottrina penalistica classica, in tutti i casi di questo tipo, imputava l’evento morte all’agente a titolo di responsabilità oggettiva. Si trattava di una meccanica conseguenza del severo principio : in altre parole, la situazione penalmente rilevante accertata in relazione al reato minore rendeva l’agente colpevole anche per il fatto più grave (nel nostro caso, per la morte), indipendentemente dal fatto che quest’ultimo fosse da questi voluto, preveduto o anche soltanto prevedibile. E ciò – chiarisce il brocardo citato – a titolo di una sorta di ulteriore punizione per il delinquere in quanto tale, punizione consistente nell’addossare senz’altro all’agente anche l’ulteriore più grave evento verificatosi. Naturalmente in nome del fatto che esso – quantunque magari occorso anche – non si sarebbe verificato se l’agente stesso non avesse dato luogo alla condotta criminosa delineata dal reato minore.
A tale interpretazione non ostava affatto l’espressa menzione che l’art. 83 c.p. fa dei delitti colposi. Tale menzione – si sosteneva – significava esclusivamente che il delitto non voluto rilevava soltanto quando fosse punito dalla legge a titolo colposo (come nel caso appunto dell’omicidio, o delle lesioni, o dell’incendio, ma non ad esempio del danneggiamento). Il che, ovviamente, è diverso dal richiedere che la colpa debba effettivamente sussistere nel caso di specie.
È appena il caso di rilevare che non si trattava degli unici casi nei quali il nostro ordinamento ammettesse l’esistenza di una responsabilità oggettiva in campo penale. Tale teoria era infatti sostenuta anche in relazione all’omicidio preterintenzionale (che del resto si differenzia dai casi visti finora soltanto perché il reato minore viene rispetto all’omicidio viene circoscritto ai casi di lesione, con conseguente particolare regime sanzionatorio), nonché a tutti i casi nei quali la punibilità per un determinato reato era subordinata al verificarsi di una condizione esterna al reato stesso, che fondava la punibilità per quest’ultimo anche qualora non voluta dall’agente (c.d. «condizione obiettiva di punibilità»; caso classico, il fallimento in relazione al reato di bancarotta).
Contro tali nozioni hanno ormai da tempo reagito dottrina e giurisprudenza. Le quali, con profluvio di scritti e pronunce che sarebbe ormai difficile e superfluo citare in questa sede, hanno statuito che sussiste responsabilità penale in relazione a ogni singolo evento quando l’agente possa essere chiamato a rispondere di esso per lo meno a titolo di colpa.
Da tutto ciò discende che l’evento morte di cui all’art. 437, secondo comma c.p. sarà da imputare all’agente appunto soltanto a titolo colposo.
Il coordinamento con il D. Lgs.231/2001
Occorre a questo punto capire in quale maniera ciò che è stato detto finora interagisca con la tesi dei difensori della ThyssenKrupp circa l’inesistenza della responsabilità amministrativa della società 231/2001.
Il fatto è che, secondo la difesa ThyssenKrupp, una serie di univoci elementi indicano che i reati tassativamente elencati in tale legge sarebbero esclusivamente reati dolosi. Ciò si evince, tra l’altro, dall’utilizzo della formula «consumati e tentati», laddove – com’è noto – il tentativo è punito nel nostro ordinamento soltanto nel quadro di una fattispecie dolosa.
Da ciò, sempre secondo i difensori, discendeva un ulteriore profilo di inapplicabilità della 231/2001 al caso di specie. Anche se, infatti, gli eventi morte di cui sopra si volessero sussumere nella fattispecie omicidio, si tratterebbe pur sempre di omicidio colposo (naturalmente questa è, ancora una volta, la tesi difensiva; molto diversa dallo stato degli atti, visto che Harald Espenhahn, amministratore delegato della società, era stato condannato in primo grado per omicidio doloso illuminato da dolo eventuale). L’accoglimento in appello della tesi difensiva inerente l’insussistenza del dolo in capo ad Espenhahn, appariva dunque idoneo – secondo tale tesi – a travolgere la responsabilità amministrativa della persona giuridica indipendentemente dalla sussunzione dell’evento morte nella fattispecie di omicidio o in quella di disastro.
È appena il caso di rilevare che tutto ciò è possibile alla luce soltanto delle interpretazioni su cui ci siamo soffermati nel paragrafo precedente. Se, infatti, si sostenesse ancora la tesi della responsabilità oggettiva, le conseguenze giuridiche previste per i reati dolosi – quali l’applicabilità del D.Lgs. 231/2001 – sarebbero state probabilmente destinate a prodursi; e ciò in nome di un’argomentazione sistematica in vero piuttosto complessa, con la quale non intendiamo il lettore poiché trattasi, per l’appunto, di questioni dall’interesse ormai esclusivamente storico.
Ciò che qui preme ancora una volta rilevare è che l’ormai consolidatissimo orientamento che richiede la colpa in relazione all’evento morte che aggrava il reato appariva strumentale alla difesa ThyssenKrupp nel dimostrare la non sussistenza della responsabilità amministrativa della persona giuridica.
Il fatto poi che tale tesi potesse andare a buon fine deriva da ulteriori considerazioni, che sono sviluppate nel prossimo paragrafo.
Le teorie sull’assorbimento delle fattispecie di reato
Affinché l’esposta tesi difensiva potesse essere accolta, non era sufficiente aver dimostrato che l’applicazione del secondo comma dell’art. 437 agli eventi morte possa validamente escludere la responsabilità della persona giuridica. Occorreva, naturalmente, dimostrare che tale norma potesse essere applicata nella maniera auspicata dalla difesa stessa. In altre parole, occorreva che il secondo comma dell’art. 437 fosse ritenuto completamente assorbente rispetto alla fattispecie di omicidio colposo (ferma restando sempre la caducazione in appello della condanna per omicidio doloso inflitta ad Espenhahn, in costanza della quale la responsabilità 231/2001 sussisterebbe senza alcun dubbio).
Com’è noto, nel diritto penale il fenomeno dell’assorbimento si produce – secondo i principî enunciati nell’art. 16 del codice stesso – quando tutti gli elementi costitutivi di una norma sono contenuti in un’altra norma, che a sua volta ne comprenda altri. Caso classico, il reato complesso: in caso ad esempio di rapina – che si compone di furto e violenza – si applicano soltanto le norme dedicate alla rapina e non anche quelle dedicate ai due reati che la compongono.
Analogamente si doveva procedere, secondo la difesa, nel caso del più volte citato art. 437, secondo comma c.p., giacché il disastro ivi descritto apparirebbe contenere in sé tutte le caratteristiche dell’omicidio colposo.
Senonché, sussiste un elemento che impedisce di assorbire gli eventi morte in questione nel disastro menzionato dalla citata. Recita infatti la norma in esame: “Se dal fatto deriva un disastro o un infortunio, la pena è da tre a dieci anni”.
Ordunque, affinché le morti siano del tutto assorbite nel disastro (o nell’infortunio), occorre che esse siano giuridicamente del tutto comprese in esso. In altre parole, occorre che esse derivino esclusivamente dalle condotte descritte nel primo comma dell’art. 437 c.p., vale a dire dalla rimozione dolosa di cautele infortunistiche.
Com’è noto, non è invece questa la tesi sostenuta dalla pubblica accusa, secondo la quale la colpa sussistente in capo ai vertici dell’acciaieria di Torino avrebbe avuto ad oggetto condotte e circostanze assai più ampie di quelle inerenti la rimozione della misure contro gli infortuni sul lavoro. Al contrario, tale fattispecie rappresenta un elemento quasi collaterale, rispetto alle molto più ampie trascuranze delle quali, secondo quanto sancito anche dai giudici di primo grado, si sarebbero macchiati gli imputati tutti.
Una colpa, in altre parole, molto più ampia di quella richiesta per l’applicazione delle sanzioni comminate dal secondo comma dell’art. 437, secondo comma, c.p. Il quale non può dunque assorbire in sé gli eventi morte eludendo l’applicazione delle norme dedicate all’omicidio. Il che, del resto, va nel senso di un consolidato indirizzo giurisprudenziale che risale per lo meno a Cass. Pen. (sez. IV), 16 luglio 1993, n. 10048.
Tutt’al più, al contrario, si potrebbe ipotizzare che sia l’applicazione delle norme sull’omicidio a ritenere in sé l’evento morte di cui al secondo comma dell’art. 437.
La sentenza di appello
I pochi contenuti già noti della sentenza di appello, del cui dispositivo è stata data lettura a Torino lo scorso 28 febbraio, consentono alcune fondamentali valutazioni in ordine ai punti sviluppati nel presente contributo.
, non è stata confermata la colpevolezza di Harald Espenhahn per omicidio doloso illuminato da dolo eventuale. Trasferito dunque l’evento morte – a un primo titolo – sotto la fattispecie di omicidio colposo, quest’ultima è stata ritenuta in concorso formale con il secondo comma dell’art. 437. Ciò significa che è stata applicata la pena prevista per reato più grave, aumentata con il limite della misura del triplo imposto dall’art. 81, primo comma, c.p.
Pur se è ovviamente noto il risultato sanzionatorio finale, che per Harald Espenhahn è stato di 10 anni di reclusione contro i 16 inflitti in primo grado, la presenza di ulteriori fattispecie di reato rende impossibile in questa sede il calcolo del trattamento sanzionatorio preciso derivante dal concorso formale di cui sopra. È però già evidente, dalla sola applicazione del concetto formale stesso, che né la norma sull’omicidio colposo ha riassorbito in sé l’evento morte art. 437, secondo comma, né viceversa. In tali casi, infatti, sarebbe stata applicata soltanto la pena prevista per la fattispecie ritenuta assorbente rispetto all’altra e non avrebbero trovato applicazione gli aumenti di pena dettati – come visto – dal secondo comma dell’art. 81. Su tale punto appare dunque pienamente confermata la tesi sopra esposta, secondo la quale l’evento morte descritto dal secondo comma dell’art. 437 non è idoneo a riassorbire in sé l’evento morte prodottosi con le modalità del caso di specie.
Nonostante l’evidenza di tali punti, però, la presenza di numerosi altri profili di ipotizzata responsabilità amministrativa della persona giuridica rende al momento impossibile comprendere se e come essa sia stata ritenuta anche in relazione alle condotte di omicidio colposo, in eventuale sovvertimento della tesi difensiva descritta nei paragrafi precedenti.
Per tutto ciò, occorrerà naturalmente attendere il deposito delle motivazioni, che la Corte ha previsto entro la fine del mese di maggio. Basti, per il momento, aver illustrato lo schema giuridico nel quale andranno a innestarsi le soluzioni che la Corte di Assise di Appello di Torino proporrà in quella sede.