Sicurezza sul lavoro

Il primo maggio è la festa di tutti i lavoratori, ma la sicurezza e la dignità dove sono?

Il lavoro non è solo occupazione, ma dignità, partecipazione, futuro. E la sicurezza non è un adempimento: è rispetto
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Il primo maggio è la festa di tutti i lavoratori, ma la sicurezza e la dignità dove sono?

La celebrazione della giornata del 1° Maggio come festa dei lavoratori deriva dalla rivendicazione di maggiori diritti e del miglioramento delle condizioni lavorative da parte dei lavoratori della metà del 19° secolo.

Senza dubbio, il lavoro è ancora motivo di orgoglio. Il passato lo raccontano i vecchi, nelle fotografie in bianco e nero, nei ricordi ripetuti ogni anno. Quell’orgoglio era reale: scolpito nelle mani callose, nella fatica quotidiana, nella possibilità di costruire con il proprio mestiere un pezzo di dignità. Magari è perché, nei ricordi, è reso più vivido dal tempo. A ben vedere, una volta si moriva di più, ci si faceva più male, la vita era più dura. Eppure, l’orgoglio di costruire la propria dignità sembrava più forte dei rischi. O magari è solo il passato che ci illudiamo di ricordare, scegliendo inconsapevolmente di vederne solo la parte più luminosa.

Il lavoro non è uno scenario, ma vita concreta

Oggi, nel giorno che celebra il lavoro, il rischio è quello di assistere all’ennesima messinscena di discorsi rituali, stanchi, scoloriti dal tempo e dall’abitudine. Parole spente, che si ripetono con puntualità liturgica, mentre la realtà del lavoro segue tutt’altra traiettoria. Nel grande teatro della comunicazione pubblica, due fazioni si alternano sul palcoscenico.

La prima presenta un sistema che funziona, solido, giusto, moderno – salvo poi attribuire ogni falla agli “altri”: i pigri, gli assenteisti, i giovani svogliati, i migranti. La seconda si indigna a gran voce, si strappa le vesti, denuncia l’ingiustizia, ma a volte lo fa con l’occhio rivolto al tornaconto, alla visibilità, alla rendita di posizione. È un copione ormai consunto, dove ciascuno interpreta il proprio ruolo con mestiere. In mezzo, il lavoro vero – fatto di persone, di responsabilità, di fragilità – resta fuori scena, ignorato dai riflettori.

Eppure, il lavoro non è uno scenario, né una narrazione da gestire. È vita concreta, quotidiana, fatta di mani, di volti, di corpi esposti a rischi. Le statistiche raccontano che gli incidenti, faticosamente, calano. Ma le tragedie continuano.

E ogni numero in meno, per quanto leggermente incoraggiante, non basta a farci dimenticare che ogni ferito, ogni morto, è una persona. Un compagno, un collega, una storia che si interrompe. Ogni incidente è uno sbrago nel tessuto della fiducia, un punto in meno nella credibilità di chi avrebbe dovuto proteggere e non lo ha fatto.

La sicurezza, tra disattenzione e abitudine

Si continua a morire perché si cade da un’impalcatura, perché si resta schiacciati sotto una macchina, perché manca una protezione, una formazione, una cultura. Perché si dimentica che dietro ogni mansione c’è una persona, e non un semplice ingranaggio da sostituire. Si continua a morire perché si lavora in fretta, si tagliano i tempi, si fa finta che certe regole siano solo orpelli burocratici. Si muore anche perché il lavoro nero, l’irregolarità e l’abbandono non sono residui del passato, ma realtà quotidiana in molte filiere produttive.

I dati su infortuni e incidenti sul lavoro in Italia

Nel 2024, secondo i dati INAIL, sono state presentate 589.571 denunce di infortunio, di cui 1.090 con esito mortale. E tra questi numeri si nascondono tragedie collettive: solo nel 2024, si sono verificati 39 incidenti plurimi, in cui più persone hanno perso la vita nello stesso evento. Dalla centrale idroelettrica di Bargi, dove sono morti 7 operai, all’incidente in cantiere a Firenze, che ha causato la morte di 5 lavoratori, le cronache ci ricordano che si muore spesso insieme, e quasi sempre per mancanze evitabili. E poi il furgone che si ribalta lungo la strada del rientro, portando via in un colpo solo tre braccianti. O l’esplosione in fabbrica, che uccide quattro operai a pochi giorni dalla pensione. Non sono casi isolati: sono sintomi di un sistema che accetta l’eccezione come normalità.

Gli infortuni crescono in settori come il commercio, l’alloggio e la ristorazione, i trasporti. E le costruzioni, che segnano un +2,8% rispetto all’anno precedente. Aumentano tra i lavoratori nati all’estero (+1,4%) e tra gli over 60 (+5%), due categorie spesso marginalizzate. In calo, invece, quelli tra i lavoratori italiani (-2,9%) e tra le fasce centrali di età. Ma questo non deve rassicurare: è il segno di un mercato che invecchia e si sposta su segmenti sempre più precari.

Sicurezza sul lavoro e cultura della sicurezza

La sicurezza è ancora vissuta come un obbligo da sopportare, un fastidio da eludere, un dovere che si compie un centimetro sotto al minimo. Non viene quasi mai percepita come una scelta culturale, come un investimento etico e umano. E spesso chi prova a insistere, a proporre, a ricordare che si può fare meglio, viene zittito con sarcasmo, compatito. Se non succede nulla, è l’atteggiamento degli ignavi, di chi dice: non è mai successo niente, abbiamo sempre fatto così.

Una mentalità che non è solo pigra, ma dannosa, perché rifiuta ogni assunzione di responsabilità. Dante, nella Divina Commedia, li condanna all’Antinferno: non degni né del Paradiso né dell’Inferno, condannati a inseguire per l’eternità una bandiera che non rappresenta nulla, punti da vespe e mosconi, con il sangue e le lacrime raccolti da vermi. Una pena che non punisce il male, ma l’indifferenza. Una condanna all’inconsistenza. Neanche al demerito, ma al non-merito. Per loro non c’è né condanna né perdono, ma oblio.

La sicurezza non è un orpello, ma una scelta

Se succede qualcosa, allora si cercano i colpevoli. Si scava tra le carte, si ricostruiscono orari, si interrogano testimoni. Ma non per capire davvero, piuttosto per spostare il peso. Ma intanto, qualcuno ha pagato. E non con una multa, ma con il proprio corpo, con la propria vita. È allora che si capisce che la sicurezza non è un orpello, ma una scelta. E che scegliere di non scegliere è già una responsabilità.

Eppure è proprio questa mentalità che, in troppi luoghi di lavoro, continua a governare. E poi succede: l’incidente, la morte, la ferita che si sarebbe potuta evitare. Si riparte da zero, raccogliendo macerie, compilando verbali, osservando da vicino il dolore di chi resta. A volte si tenta di placare la coscienza offrendo assistenza legale a chi resta: vedove, orfani. Quasi fosse una soluzione. Più spesso, si volta la testa dall’altra parte, in attesa del prossimo giro di roulette. Come se il caso, e non le scelte, decidesse davvero il destino di chi lavora.

Un’eredità di lotte, una promessa disattesa

Il primo maggio nasce nel sangue della rivendicazione. Nel 1886, a Chicago, migliaia di lavoratori scesero in piazza per chiedere l’orario di otto ore. Otto ore, sì: un confine che allora segnava un traguardo di civiltà, e che oggi, con una certa ironia della storia, viene considerato da alcune organizzazioni come un lusso improduttivo. E questo, non solo in fabbriche di periferia o datori di lavoro di dubbia etica, ma anche in aziende del terziario avanzato, big tech illuminate, best-places-to-work che predicano innovazione e benessere. Lì, otto ore sembrano quasi un part-time: chi osa chiederne il rispetto viene visto come un sabotatore della cultura della performance.

Lavorare sempre, ovunque, in ogni momento, come se fosse un privilegio – e non un lento logoramento della vita. Lo sciopero, la repressione, la tragedia di Haymarket: lì e allora una data si è scolpita nella memoria collettiva. È l’opposto esatto dell’ipocrisia che qui e oggi pretende maratone di lavoro e spedisce notifiche a mezzanotte. Non è una festa da cartolina, è un ricordo di lotte e di sacrifici, che stride con la retorica contemporanea del benessere aziendale fatta di open space e badge infiniti. Non è un rituale da rispettare per forma, è un appello che torna, ogni anno, a chiederci da che parte stiamo davvero.

Eppure, mentre le fanfare parlano di piena occupazione e dell’aumento della capacità di spesa degli italiani, la realtà restituisce un’altra immagine. In questo Paese che sembra impegnato in un lungo crepuscolo, che invecchia e si svuota, il lavoro resta spesso una promessa non mantenuta.

Il lavoro come promessa non mantenuta

Lo è per chi arriva da lontano, attraversa mari e confini per cercare un futuro, ma trova solo fatica, sfruttamento, contratti irregolari, silenzi imposti. Lo è per le donne che ancora oggi guadagnano meno, fanno più fatica a crescere, vengono scartate perché potrebbero, un giorno diventare madri! Lo è per i giovani, troppo spesso relegati a ruoli marginali, sottopagati o inquadrati in stage senza sbocchi, che sognano di fare la valigia e andarsene altrove, dove il talento vale più della pazienza e della rassegnazione.

Il lavoro non è solo occupazione. È dignità, riconoscimento, partecipazione, futuro

Il lavoro non è solo occupazione. È dignità, riconoscimento, partecipazione, futuro. È avere voce, potere, spazio, un progetto. E la sicurezza, quella vera, non è un adempimento: è rispetto. È il segno tangibile che la vita di chi lavora vale.

Oggi è il primo maggio, ma non c’è nulla da festeggiare se il lavoro, invece di liberare, imprigiona, consuma, isola, uccide. La memoria non basta, e le parole non servono a chi ogni giorno vive il lavoro come una silenziosa battaglia di dignità e professionalità, come se onorasse il primo maggio tutto l’anno, senza festa e senza applausi.

Serve uno sguardo lucido, capace di riconoscere ciò che ancora manca, ciò che non funziona. Ma serve anche una fiducia concreta, coltivata nel tempo, con scelte, gesti, responsabilità. Perché, nonostante tutto – le contraddizioni, le difficoltà, le ipocrisie – ci sono donne e uomini che non si arrendono. E non stanno ad aspettare: agiscono, propongono, costruiscono.

Ci sono professionisti che non accettano compromessi. Imprese che scelgono di investire davvero nelle persone. Comunità che si organizzano, si aiutano, si ascoltano. Tecnici che formano, operai che segnalano, datori di lavoro che danno risposte, dirigenti che si assumono la responsabilità. Ognuno con il suo ruolo, ognuno con la sua forza.

Dobbiamo immaginare – e costruire – un futuro dove tutto questo non sia eccezione, ma regola. Dove la sicurezza non sia mai una voce di bilancio, ma sempre una cultura condivisa. Dove lavorare significhi partecipare, creare, contribuire. Un futuro dove nessuno sia lasciato indietro, dove ogni voce conti, ogni gesto abbia valore.

E allora sì, potremo tornare a dire – non con nostalgia, ma con fierezza – che il lavoro è orgoglio. E che non lo abbiamo dimenticato. Ce la possiamo fare. Alcuni lo stanno già facendo. Tocca a noi raggiungerli. E allora, anche quelli che oggi si accontentano del minimo, che trascurano, che ignorano, che si voltano dall’altra parte, rimpiangeranno di non aver scelto prima.

Rimpiangeranno di non aver curato la sicurezza dei propri lavoratori, di non aver costruito aziende in cui la fiducia potesse crescere, di aver pensato che tutto si risolvesse con una firma e una procedura. Perché chi ha già scelto la dignità, domani sarà anche per loro un esempio da seguire. E in quel momento non ci sarà più nulla da rivendicare: il cambiamento è già cominciato, e sarà sotto gli occhi di tutti.

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