L’ergonomia applicata alla progettazione dei carichi di lavoro
La definizione ergonomica dei compiti di lavoro
Il percorso metodologico per giungere ad una valida valutazione dei rischi parte dall’indagine analitica sui processi di lavoro e sulle mansioni, al fine di una loro verifica ed eventuale riprogettazione.
Concepire adeguatamente il lavoro significa in particolare mirare ad allineare le esigenze produttive dell’attività con le necessità e le capacità di chi vi è addetto; in definitiva, raggiungere con maggior probabilità prestazioni efficaci e al tempo stesso fattibili e non dannose per chi le debba svolgere, anzi possibilmente gratificanti, con ripercussioni positive su molteplici rischi solitamente affrontati in un’ottica monofattoriale e segregata.
L’ergonomia offre un contributo fondamentale in questa direzione, fornendo una serie di strumenti rigorosi per l’osservazione e la progettazione di compiti e mansioni in un’ottica integrata.
Generalmente, una mansione consiste in una serie di compiti (pur non esaurendosi in questo, poiché è definita anche dagli aspetti inerenti il “ruolo”, ovvero i possibili livelli di autonomia operativa e decisionale e le responsabilità connesse); il compito lavorativo è solitamente individuabile come l’unità descrittiva minima che compone una data attività lavorativa.
L’analisi ergonomica del compito lavorativo presuppone una descrizione minuziosa delle sue sottoattività, comprensiva dell’individuazione dei potenziali fattori di impatto sull’operatore.
In questo ambito, un elemento fondamentale di impatto è rappresentato dal carico di lavoro, che – sia esso di natura materiale (carico di lavoro fisico) che intellettuale – deve risultare adeguato alle capacità ed alle condizioni del lavoratore in quel determinato contesto. Apparentemente di segno opposto, sia il sovraccarico che il sottocarico di lavoro sono potenzialmente impattanti sulla salute psico-fisica e possono generare situazioni comuni di esaurimento delle risorse o delle motivazioni.
Lavoro di tipo fisico
Nel lavoro di tipo fisico, non è solo lo sforzo ad essere oggetto di valutazione, ma anche il tipo di postura: a prescindere dalla congruità della postura adottata rispetto alle sollecitazioni che questa svolge sui vari distretti corporei coinvolti, in linea generale si osserva che il lavoro statico è maggiormente affaticante rispetto a quello dinamico, poiché richiede una forza costante della muscolatura interessata – mentre nel lavoro dinamico la muscolatura viene sollecitata in modo alternativo e ciò permette la loro distensione e l’afflusso di sangue che ne consente la rigenerazione.
In genere, invece, è opinione comune che il lavoro di tipo statico sia meno “pesante” del lavoro fisico di tipo dinamico; in realtà, opportunamente progettato un lavoro di tipo dinamico può essere protratto più a lungo di un lavoro di tipo statico.
Un’importante misura di prevenzione è quindi quella che coinvolge la ridefinizione del compiti, inserendo ove possibile l’alternanza di lavoro dinamico e di lavoro statico, o quantomeno introducendo all’interno del lavoro statico delle pause dinamiche (ne sono un esempio le famose “interruzioni” dall’attività a VDT disposte dal Testo Unico).
All’interno delle diverse posture statiche, ve ne sono poi alcune maggiormente affaticanti poiché richiedono una posizione estremamente innaturale del corpo o di un suo distretto: il ricorso a queste posture va certamente limitato, principalmente attraverso una progettazione migliore della postazione di lavoro. L’osservazione del tecnico può, in questi casi, anche avvalersi di indagini mirate a reperire il parere dei diretti interessati, in modo da poter oggettivare il disagio attraverso una mappatura delle aree del corpo in sofferenza.
Rispetto al lavoro di tipo dinamico, invece, è di grande importanza valutare il dispendio energetico richiesto dal compito ed in questo ci si può avvalere di alcune metodologie messe a punto. A livello oggettivo, è utile il metodo ideato da Brouha che procede ad un conteggio delle pulsazioni cardiache di recupero dopo l’esecuzione dello sforzo fisico, e le interpreta tramite una scala; a livello soggettivo, è conosciuta ed utilizzata la “scala di Borg” che intende rilevare ed oggettivare la percezione del grado di sollecitazione fisica a cui i lavoratori sono sottoposti.
La valutazione delle posture nel lavoro dinamico può avvalersi di molte metodologie appositamente messe a punto; storicamente l’analisi ergonomica considera affidabile il sistema OWAS, che considera congiuntamente le posture di tronco, braccia, gambe e l’applicazione di forza richiesta dal compito analizzato; i risultati sono poi interpretabili per mezzo di una scala graduata che suggerisce le priorità di intervento. Tra i fattori considerati incide anche la percentuale di tempo che è possibile dedicare a delle pause dall’attività sotto carico; al proposito diverse indagini hanno dimostrato che in genere l’introduzione di brevi pause di recupero fisiologico a intervalli regolari tende a far aumentare la produzione e non a diminuirla, dal momento che la comparsa di sintomi di fatica viene ritardata e parallelamente possono venire soddisfatti altri bisogni essenziali (es. la socialità).
Lavoro di tipo intellettuale
Nel lavoro di tipo intellettuale, il carico mentale viene valutato in funzione dell’alternanza di richieste – né scarsa né eccessiva, e priva di ambiguità di contenuto o di procedura – in funzione delle abilità richieste al compito e della rete organizzativa in cui il soggetto è inserito. In questo ambito gli strumenti di analisi ergonomica confluiscono nelle metodologie per la valutazione del , per gli aspetti inerenti al contenuto del lavoro ed alla congruenza tra aspettative, competenze e responsabilità connesse al compito da svolgere.