Sicurezza sul lavoro

Incidenti sul lavoro in Italia: è urgente una strategia vincente per ridurli

È necessaria una procura nazionale? Ci sono altri modelli e strategie vincenti per ridurre il numero di incidenti sul lavoro in Italia? Pare di sì, ecco quali sono e quali carenze mostra un sistema sanzionatorio come quello italiano
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Incidenti sul lavoro in Italia: è urgente una strategia vincente per ridurli
La creazione di una procura nazionale contro gli incidenti sul lavoro sembra essere la ricetta che il sistema Italia ha intenzione di dare alla crisi degli incidenti sul lavoro. Una crisi che non consiste – è bene ricordare – in un eccezionale aumento del loro numero, perché sono ormai più di vent’anni che nel nostro paese, ogni giorno dell’anno accadono mediamente dai tre ai quattro infortuni mortali. Qualche giorno tre, qualche giorno quattro. Il 28 settembre 2021 sei persone hanno perso la vita mentre erano al lavoro, in diversi incidenti. Si aggiungono alle numerose tragiche morti degli ultimi mesi, che la pandemia non ha fermato, anzi.

Il deficit di attenzione del legislatore

Diciamo che la misura è colma, e che i nostri governanti hanno deciso che è il tempo di dedicarsi a questo argomento. Diciamo anche che è stata individuata questa priorità, anziché, ad esempio, completare quella costruzione sbilenca che è la normativa prevista dal Testo Unico. Il D.Lgs. 81 del 2008, infatti, prevede un numero di decreti per attuare le sue disposizioni, che però in buona parte non sono ancora stati pubblicati. La loro storia può essere sintetizzata da quella del sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi. Doveva essere elaborato dalla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro e proposto dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali. La prima volta fu promesso che sarebbe avvenuto entro la primavera del 2009. Scaduto questo termine si è pensato di decidersi entro l’estate del 2014; un impegno del decreto-legge 69 del 2013, dall’ambizioso titolo Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia. Il 2014 è passato ormai da sette anni, e si vede che non era poi così urgente. Alla fine del 2019, poi, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali aveva promosso una consultazione pubblica a dieci anni dall’entrata in vigore del Testo Unico, che è stata chiusa il 31 gennaio 2020. L’obiettivo era raccogliere indicazioni, proposte ed esperienze per contribuire ad individuare le priorità dell’azione di governo. Si tratta di un modus operandi promosso dall’Unione Europea e molto diffuso nelle democrazie moderne. Per discipline dal forte contenuto tecnico i legislatori chiedono supporto agli operatori, direttamente o per mezzo delle associazioni professionali. Lo ha fatto, ad esempio, il governo del Regno Unito per rivedere la legislazione antincendio, al seguito del rogo della Grenfell Tower, la torre residenziale a Londra dove, nella notte del 14 giugno 2017, morirono 72 persone, tra le quali due giovani italiani neolaureati, espatriati per lavoro. Ebbene, qual è stato l’esito di questa consultazione? Non si sa. È vero che, nel frattempo, abbiamo avuto la pandemia, ma tutti i funzionari sono stati impegnati per questo? Forse, con questi numeri, non si tratta di una priorità? Sembrerebbe di no. La priorità, ora, è diventata una procura generale.

A cosa serve una Procura generale?

A cosa serve una procura generale? Sul sito web del Ministero della Giustizia si può leggere che, in Italia, ce n’è solo un’altra. Ovvero, esiste una Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo – DDA – composta dal Procuratore Nazionale Antimafia e da 20 magistrati del Pubblico Ministero, che sono i sostituti procuratori nazionali antimafia. I procuratori sono coloro che rappresentano in giudizio gli interessi della collettività e dello stato e, assieme ai sostituti, promuovono le azioni penali. Siamo sicuri che sia la soluzione giusta per i nostri problemi? Una Procura della Repubblica è un organismo nato per perseguire il crimine. Sorge il dubbio che possa far poco o nulla per arrivare al nostro obiettivo: quello di diminuire gli infortuni e gli incidenti sul lavoro.

La repressione è quello che serve?

Sì, ma si dice, i datori di lavoro saranno spinti dal timore dell’operato di questa struttura a sistemare le questioni pericolose nelle loro organizzazioni. Siamo sicuri che sarà così? Accettare questa tesi, infatti, significa sostenere che costoro trascurano le proprie responsabilità relative alla prevenzione degli infortuni e alla protezione dei lavoratori, perché pensano che sia improbabile che verranno imputati, o eventualmente condannati, o che la pena che subiranno sarà trascurabile. La sensazione di un addetto ai lavori che da ormai quasi trent’anni frequenta fabbriche, cantieri, e qualche aula di tribunale, è che, quando accade un incidente, nessuno avesse immaginato che sarebbe potuto accadere. Sembra proprio che la strada dell’insicurezza non venga presa perché è buon mercato, ma per la totale sottovalutazione delle conseguenze delle proprie azioni. Senza volere necessariamente affrontare la questione delle condanne penali, un infortunio mortale in circostanze che facciano scattare la responsabilità amministrativa dell’ente, definita con il Decreto Legislativo 231 del 2001, può portare ad una condanna, parlando solo della sanzione amministrativa pecuniaria, di oltre un milione e mezzo di euro. Ma questo non è il costo netto di una morte in azienda. Occorre aggiungere le spese legali, le sanzioni accessorie, il risarcimento dei danni. Non mi sembra che sia una cosa che possa essere messa in conto con leggerezza da un imprenditore. Che faccio? Perdo qualche migliaio di euro di fatturato o corro il rischio di essere coinvolto in un processo che andrà avanti per lustri, finendo con una condanna a pagare una vagonata di milioni, perdendo la casa, la fabbrica… Punire i colpevoli con ammende di due vagonate di milioni, potrebbe cambiare le cose? No. Ci deve essere qualcos’altro.

Incidenti sul lavoro: un sistema carente e basato sulle sanzioni

Intanto, nel nostro paese non è possibile, o non è facile – il che è lo stesso – raccogliere dati per valutare l’efficacia delle attività di ASL e di Procure nella repressione dei reati contro la salute e la sicurezza del lavoro, per cui non è nemmeno possibile conoscere il reale impatto della disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti nella lotta contro gli infortuni sul lavoro. Un’altra spiacevole dimenticanza dei governi che si sono avvicendati negli ultimi tredici anni, infatti, è quella di non avere attivato il Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione (SINP), quell’organizzazione descritta all’articolo 8 del Decreto Legislativo 81 del 2008, che avrebbe come obiettivo “fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare e valutare l’efficacia della attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali”. Ci sono voluti appena otto anni per elaborare il decreto interministeriale che ne definisce le regole per il funzionamento, altri due per costituire il tavolo tecnico, ma del SINP, ancora nessuna traccia. Occorre ammettere che il modo italiano di affrontare la salute e la sicurezza dei lavoratori, fatto salvo esempi virtuosi, è sciatto e trascurato. La norma è involuta e in perenne divenire, tra una pezza ed un rammendo. Una cosa grave è che non è stata scritta con l’obiettivo di indicare i percorsi virtuosi di tutela, ma di trovare un modo per punire chi si fosse reso colpevole di una violazione. Sì, perché chi ha redatto la norma principe, il Decreto Legislativo 81 del 2008, ha adottato sistemi e processi che sono stati definiti dal mondo industriale per migliorare le sue prestazioni, ma non li ha compresi. E così li ha trasformati in precetti che dovrebbero essere rispettati, non perché contribuiscono a migliorare il funzionamento delle aziende, ma perché altrimenti ci sarà una condanna. Come sanno bene preti e genitori, non è la minaccia di una punizione quella che farà adottare il comportamento che si vuole ottenere.

Le misure generali di tutela sono un algoritmo per gestire cinque livelli di priorità e la Hierarchy of controls

Ancora un altro esempio è la storia delle misure generali di tutela. Il loro concetto è stato definito per la prima volta negli anni Cinquanta dal National Safety Council, un organismo no profit e non governativo USA. Si tratta di un algoritmo per gestire cinque livelli di priorità per la definizione dei controlli per il rischio, con il nome di hierarchy of controls, entrato nella nostra normativa attraverso la direttiva 89/391/CEE. Nella versione italiana, però, sono diventati ventuno oggetti (articolo 15 del D.Lgs. 81/2008), ai quali se ne aggiungono altri otto nei cantieri edili (articolo 95). Perché lesinare? Il legislatore, però, non ha capito che si tratta, appunto di un algoritmo per definire le priorità all’interno di un sistema, non di un elenco. Noi specialisti continuiamo a ripetercelo, ma la legge non lo dice. Sembra chiaro come il problema sia che una parte rilevante del mondo produttivo appare essere impermeabile ai concetti della protezione della salute e della sicurezza, supportato in questo da una altrettanto rilevante aliquota delle professioni che operano attorno ad esso. Siamo sicuri che migliorare la capacità dello Stato di punire alcuni di questi soggetti avrà come conseguenza la diminuzione di incidenti e infortuni?

Come migliorare le prestazioni del 66% in 32 anni: best practice all’estero da cui bisogna prendere esempio

Non sarebbe, magari, più produttivo migliorare la capacità, di tutti, di capire qual è loro ruolo di ciascuno nel sistema di prevenzione? Il Regno Unito ha ottenuto la diminuzione degli infortuni di uno strabiliante 66% in 32 anni, anche attraverso una serie di iniziative che si sono sviluppate in parallelo all’applicazione della legge (dati a questo link). Alcune sono state promosse dal Governo, ma molte sono state proposte e attuate dagli stessi imprenditori o dalle loro associazioni. L’elenco è lungo:
  • Safety Culture, Human Error
  • High Reliability Organizations
  • Process Safety Management
  • Resilience Engineering
  • BS 8800, poi evoluto nel BS OHSAS 18001
  • Corporate Social Responsibility (CSR)
E molti altri ancora! Un esempio molto attuale è quello del Construction Skills Certification Scheme, CSCS. Lo Schema di Certificazione delle Competenze nelle Costruzioni è promosso dalle principali associazioni datoriali e sindacali del mondo dell’edilizia britannica. Si tratta di una iniziativa che prevede la certificazione di livelli differenti, a seconda delle competenze e dei ruoli, dal lavoratore in apprendistato ai dirigenti, documentata con il rilascio di una tessera. Le tessere CSCS forniscono la prova che le persone che lavorano nei cantieri hanno la formazione e le qualifiche appropriate per il lavoro che sono chiamate a svolgere, garantendo che la forza lavoro è adeguatamente qualificata. Qui arriva il bello: il possesso di una tessera CSCS non è un requisito legislativo, ma spetta all’appaltatore principale o al cliente stabilire se i lavoratori devono essere in possesso di una CSCS per potere lavorare. Ebbene: la maggior parte degli appaltatori principali e dei committenti professionali richiedono che i lavoratori edili nei loro cantieri siano in possesso di una CSCS.

Dall’afasia delle associazioni datoriali a una strategia che potrebbe rivelarsi vincente contro gli incidenti sul lavoro in Italia

In Italia le associazioni datoriali sono le grandi assenti nel dibattito, quando spetta a loro l’obbligo morale di rendere i propri associati consapevoli delle loro responsabilità nella prevenzione degli infortuni e di supportarli nella loro attività. Come è possibile farlo? Perché non attraverso la programmazione, ripetuta e periodica, di iniziative ad hoc, definendo obiettivi e rendicontandoli e discutendoli pubblicamente, a livello di associati e di opinione pubblica? Gli imprenditori e i loro dirigenti devono essere spinti a migliorare la propria formazione professionale, l’organizzazione delle aziende e, con questo, le loro prestazioni, con incentivi per i virtuosi e limitazioni per coloro che non lo fanno. Fornire supporto operativo per verifiche, programmi, acquisti. Incentivare l’adozione di sistemi di gestione per la sicurezza e supportare il loro mantenimento. Secondo una ricerca di OSHA-EU, The value of occupational safety and health and the societal costs of work-related injuries and diseases, il totale dei costi degli incidenti sul lavoro, divisi in diretti, assistenza sanitaria, indiretti, ovvero perdite della produzione e altri oneri, e intangibili, ovvero quei costi che saranno sopportati dal lavoratore e dal sistema in termini di diminuzione della qualità della vita, impattano al 6,3% del prodotto interno lordo nazionale. Non “appena” quel 3% che si cita normalmente.

La vera priorità è realmente cambiare le cose

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