Professione

‘Architetta’, sempre più diffuso il timbro al femminile

Anche l’Ordine della Sardegna apre alla firma al femminile. Sfatiamo alcuni preconcetti che ostacolano la diffusione dei femminili professionali
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‘Architetta’, sempre più diffuso il timbro al femminile

Il riconoscimento professionale prescinde dalle definizioni, la declinazione al femminile suona male e talvolta è cacofonica, le battaglie da combattere per raggiungere la parità di genere sono ben altre. Sono queste le opinioni più diffuse ogni qual volta si solleva la questione di declinare al femminile i nomi professionali. Eppure si dimentica un concetto fondamentale: la lingua è il mezzo con cui interpretiamo la realtà e tutto ciò che non viene nominato finisce per non esistere. Lo sa bene la schiera di architette che, negli ultimi dieci anni, ha lottato per il riconoscimento della firma ‘architetta’.

Una battaglia vinta per la prima volta nel 2017 da tre architette iscritte all’Ordine degli Architetti di Bergamo, a cui sono seguite quelle di Roma, Torino, Milano, Modena e Treviso. E recentemente si aggiunta alla lista anche la Sardegna. Anche le iscritte all’Ordine di Cagliari, grazie a una delibera approvata dal Consiglio, potranno quindi richiedere, se lo vogliono, il timbro professionale con la dicitura di “architetta”.

“Architetta” e la questione dei femminili professionali

La questione dei femminili professionali è spinosa e bisognerebbe affrancarla da quella antipatica etichetta di ‘lotta femminista’. E per farlo, l’arma più efficace è come sempre la conoscenza. Motivo per cui è importante cercare di sfatare alcune concezioni comuni sbagliate che stanno rallentando e in alcuni casi ostacolando la loro diffusione.

Il femminile non esiste, è una forzatura. Sbagliato!

Una delle più in voga è quella che il femminile di alcuni sostantivi non esista. Il femminile invece esiste e non a caso viene censito dai dizionari da più di vent’anni. Architetta è il femminile di architetto, così come ingegnera è il femminile di ingegnere.

Ciò che non esiste nella lingua italiana è invece il neutro. I sostantivi sono maschili, femminili e poi ci sono alcuni termini che sono ambigeneri. Tutti coloro che, ad esempio, contrastano l’uso del femminile dicendo che allora anche pediatra o dentista e via dicendo debbano essere trasformati in pediatro e dentisto peccano di ignoranza. Perché non tutto va declinato. Basta risalire all’etimologia della parola per capire quando e se debba essere declinata.

Suonano male solo perché non vengono usati

Qui, si apre la seconda questione: alcuni femminili professionali suonano male. Anche questa è una convinzione da sfatare. Suonano male semplicemente perché non siamo abituati ad usarli e se iniziassimo a farlo, probabilmente cambieremmo idea. Se ci pensiamo, “architetta”, così come “ingegnera”, equivale a “infermiera”, “maestra” e “parrucchiera”.

È quindi solo un fatto di abitudine, che apre chiaramente a un problema sociale e culturale.

In un famosissimo articolo pubblicato dall’Accademia della Crusca dal titolo “Infermiera sì, ingegnera no?“, la linguista Cecilia Robustelli spiega come “le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sono, celatamente, di tipo culturale.” Fino a diversi anni fa alcune professioni di prestigio, come l’avvocato, il medico, il sindaco, l’architetto, l’ingegnere erano di esclusivo appannaggio maschile. Il femminile non esisteva perché non esistevano le donne che svolgevano queste professioni o incarichi. Ora esistono e all’evoluzione sociale dovrebbe quindi seguire anche un’evoluzione linguistica.

Il maschile è più “autorevole”. Ne siamo sicure?

L’ultima, ma non per importanza, questione riguarda l’idea, anch’essa di matrice sociale e strettamente connessa al concetto di potere e, dobbiamo dirlo, piuttosto diffusa tra le donne, che la declinazione al femminile possa sminuire il ruolo ricoperto dalla donna. Sono in molte a pensare che la desinenza al maschile sia più autorevole, e vogliono a tutti i costi mantenerla.

Una donna acquisisce veramente più rispetto se non la si identifica al femminile ma al maschile?

Al contrario, è forse proprio con il rimarcare una differenza, che c’è, è oggettiva, che si restituisce alla donna il ruolo che ricopre. E che si annullano le discriminazioni.

A ribadirlo (bene) è la sociolinguista Vera Gheno che, nel saggio “Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole” affronta con chiarezza ed esaustività il tema dei femminili professionali. E sul fronte della presunta autorevolezza si espone dichiarando: “Se dovessi ricoprire la carica di ministro, mi farei chiamare ministra non per questuone ideologica, ma perché sono una donna. Il femminile non sottolinea una differenza, ne è semplice conseguenza. …. Trovo mortificante che per essere presa sul serio debba definirmi ministro o assessore.”

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