Sicurezza sul lavoro

Covid-19 e gerarchia dei controlli HSE: domande e risposte post webinar

Antonio Pedna risponde a molte domande emerse durante il webinar sul tema Covid-19 e grarchia dei controlli in ambito HSE
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Covid-19 e gerarchia dei controlli HSE: domande e risposte post webinar
Durante il primo incontro del ciclo di webinar live organizzati da Wolters Kluwer e Teknoring rivolto ai professionisti dell’HSE e RSPP, Antonio Pedna ha spiegato il concetto della gerarchia dei controlli come strategia per affrontare l’emergenza Covid-19 in ambito HSE. In questo articolo l’autore risponde a molte domande emerse durante l’incontro in aula virtuale svoltosi lo scorso 30 aprile 2020.

Sanificazione

Con il termine sanificazione si intendono le attività definite dall’articolo 1 comma 1 lettera e) del Decreto del Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato numero 274 del 1997. La norma definisce le attività di pulizia, di disinfezione, disinfestazione, di derattizzazione e di sanificazione in una progressione che va da quelle più semplici – la pulizia – a quelle più complesse, la sanificazione appunto. Quest’ultima è quell’attività relativa al «complesso di procedimenti e operazioni atti a rendere sani determinati ambienti mediante l’attività di pulizia e/o di disinfezione e/o di disinfestazione, ovvero mediante il controllo e il miglioramento delle condizioni del microclima per quanto riguarda la temperatura, l’umidità e la ventilazione o, ancora, per quanto riguarda l’illuminazione e il rumore». Le imprese che si occupano di tale attività devono poter dimostrare il possesso dei requisiti tecnico-professionali anche ai fini dell’iscrizione presso le Camere di Commercio. Utilizzando il termine “sanificazione”, in ambito professionale si fa riferimento a questa attività specializzata, che quindi non è consigliabile sia eseguita da personale non qualificato, quali, ad esempio, gli impiegati.

Che differenza c’è tra pulizia e sanificazione?

Il Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro del 24 aprile 2020, al capitolo 4 Pulizia e sanificazione differenzia la pulizia, che deve essere assicurata quotidianamente, dalla sanificazione, che invece deve essere effettuata seguenti casi:
  • quando si sia verificata la presenza di un soggetto positivo al COVID-19 in azienda;
  • prima della riapertura, nelle aree geografiche a maggiore endemia o nelle aziende in cui si sono registrati casi sospetti di COVID-19;
  • periodicamente, con periodicità definita dal datore di lavoro o, in alcuni casi, dalle ordinanze locali.
Le sanificazioni devono essere eseguite seguendo le disposizioni della circolare n. 5443 del 22 febbraio 2020 del Ministero della Salute. Questo documento approfondisce ed integra due precedenti circolari n. 1997/2020 e 2302/2020 che forniscono indicazioni sulla gestione dei casi di COVID-19 nelle strutture sanitarie, per l’utilizzo dei DPI e sulle precauzioni da tenere. Le specifiche per la pulizia degli ambienti non sanitari stabiliscono che si debba procedere in questo modo:
  • Completa pulizia con acqua e detergenti ordinari.
  • Decontaminazione con soluzione di ipoclorito di sodio 0,1% (in alternativa, etanolo 70% per gli oggetti che possono essere danneggiati dall’ipoclorito di sodio) dopo la pulizia.
  • Addetti protetti con maschere almeno FFP2, protezione facciale, guanti monouso, camice impermeabile a maniche lunghe monouso, procedure per la svestizione e smaltimento DPI utilizzati come materiale potenzialmente infetto.
  • Lavaggio tessuti a 90°C o, se non possibile, con candeggina o detergenti addizionati a ipoclorito di sodio.
Una impresa specializzata saprà sicuramente fornire le indicazioni migliori per i diversi casi esposti dai partecipanti. Per quanto riguarda metodologie alternative, questo coronavirus è recente, non esiste una letteratura molto ampia cui fare riferimento e la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), nel suo Water, sanitation, hygiene, and waste management for the COVID-19 virus Interim guidance del 23 aprile 2020, recentissimo quindi, fa riferimento esclusivamente a detergenti a base di ipoclorito di sodio o alcool.

Disinfezione con ozono?

La disinfezione con ozono è stata utilizzata con successo nell’epidemia di SARS del 2003 (SARS-CoV-1) e, al momento, sono in corso numerosi studi al riguardo. È comunque prudente attendere determinazioni ufficiali in merito e fino ad allora fare riferimento ai metodi indicati dalla letteratura ufficiale.

Ruolo del medico competente nei confronti dei lavoratori fragili

Il 29 aprile 2020 il Ministero della salute ha emesso le Indicazioni operative relative alle attività del medico competente nel contesto delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2 negli ambienti di lavoro e nella collettività con cui fornisce importanti indicazioni al medico competente. Questo documento affronta il tema dei soggetti fragili, individuato dal Protocollo, osservando che i dati epidemiologici sembrano individuare una maggiore incidenza del contagio nella popolazione di età superiore a 55 anni, nonché in presenza di co-morbilità, parola che definisce la frequenza percentuale di una malattia in una collettività. In questi casi occorre sensibilizzare i lavoratori a segnalare al medico competente eventuali patologie, ad esempio malattie cardiovascolari, respiratorie, metaboliche, anche attraverso la richiesta di visita medica straordinaria (D.Lgs. 81/2008 art. 41 c.1 lett. e). Né il Protocollo né questo documento, è vero, forniscono indicazioni sul comportamento da tenere, una volta che i soggetti fragili sono stati identificati. Naturalmente, sarà necessario fare riferimento al telelavoro, quando possibile, altrimenti, probabilmente il percorso da seguire è quello definito dal Decreto-legge 18 del 17 marzo 2020 all’articolo 26, che crea un rapporto condizione di rischio -> assenza dal lavoro equiparata all’assenza per malattia, ma la strada non è chiara.

Delucidazioni sulle mascherine

Le mascherine si indossano, per coprire naso e bocca, fondamentalmente con questi obiettivi:
  • Proteggere gli altri;
  • Proteggere sé stessi.
Le mascherine chirurgiche vengono indossate per proteggere gli altri. Le loro caratteristiche devono rispettare lo standard UNI EN 14683:2019 e sono immesse in commercio in tre tipi, Tipo I, Tipo II e Tipo IIR. Per gli scopi di prevenzione dal contagio della popolazione civile, già le Tipo I sono idonee, essendo prodotte per essere utilizzate solo dai pazienti e dalle altre persone per ridurre il rischio di diffusione delle infezioni, in particolare in situazioni epidemiche o pandemiche.

Tipo I

Il loro processo di produzione non prende in considerazione il fatto che possano essere utilizzate come dispositivo di protezione personale, per cui non si può fare affidamento su di loro come DPI. Lo standard non prevede che le mascherine chirurgiche siano marcate singolarmente, ma il numero dello standard di riferimento e il tipo della mascherina devono essere indicati nel loro imballaggio.

Mascherine antipolvere FFP1, FFP2 e FFP3

Le cosiddette mascherine antipolvere, anzi, tecnicamente si definiscono “semimaschere filtranti antipolvere riutilizzabili”, sono indossate dagli operatori sanitari per proteggere sé stessi, in condizioni in cui le operazioni che effettuano possono sviluppare aerosol, nel nostro caso, ovvero nebulizzazioni di liquidi nell’aria. Sono prodotte secondo lo standard UNI EN 149:2009 secondo tre caratteristiche, le ormai famose FFP1, FFP2 e FFP3, in ordine di tenuta. Le mascherine antipolvere devono esser marcate una ad una con queste specifiche:
  • Il nome, il marchio di fabbrica o altro mezzo di identificazione del fabbricante o del fornitore.
  • La marcatura di identificazione del tipo.
  • Il numero e l’anno di pubblicazione della norma europea.
  • La classe appropriata (FFP1, FFP2 o FFP3) seguita da uno spazio e quindi: “NR” se la semimaschera filtrante antipolvere è utilizzabile solo per un singolo turno di lavoro. Esempio: FFP3 NR, o “R” se la semimaschera filtrante antipolvere è riutilizzabile. Esempio: FFP2 R.
  • La presenza della lettera D è relativa alle prestazioni da intasamento.
  • Le maschere antipolvere devono anche essere contrassegnate con un codice numerico a quattro cifre, che indica quale organismo notificato è stato adottato dal produttore per la valutazione della conformità del prodotto.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel suo Advice on the use of masks in the context of COVID-19 – Interim guidance del 6 aprile 2020 consiglia di lasciare questo tipo di maschere al personale medico, per due buone ragioni:
  • In alcuni mercati sono diventate di difficile reperimento;
  • Possono indurre un falso senso di sicurezza nelle persone che le indossano, che può portare a trascurare le altre pratiche di igiene personale come il mantenimento delle distanze sociali e il frequente lavaggio delle mani.

Mascherine antipolvere munite di valvola di sfiato

È consigliabile non indossare in pubblico mascherine antipolvere munite di valvola di sfiato, riconoscibili perché presentano una protezione di plastica sulla parete esterna. Questa nasce per alleviare la fatica di indossare la maschera durante operazioni lavorative già faticosa, e permette di diminuire la resistenza che i polmoni subiscono quando espirano, facendo passare l’aria dalla valvola, che invece si chiude quando si inspira. Questo accorgimento, nelle condizioni attuali, equivale ad espirare senza filtri, con il rischio potenziale di contaminare l’ambiente circostante. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità lo smaltimento di mascherine e guanti utilizzati da persone non infette può avvenire con la raccolta indifferenziata, avendo cura di inserire questi rifiuti in un due sacchetti per rifiuti, uno dentro l’altro. La notizia è stata ripresa da varie amministrazioni pubbliche. Di seguito le risposte puntuali ad alcune domande:
  • Le mascherine, sia chirurgiche che antipolvere, vanno indossate correttamente per coprire naso e bocca, regolando la striscia di metallo duttile presente sul bordo superiore, per adattarsi alla curva del naso.
  • Le mascherine vanno sostituite secondo le eventuali indicazioni del produttore e comunque quando sono umide.
  • Le mascherine antipolvere hanno il loro massimo rendimento sui volti privi di barba e baffi.
  • Il consiglio a tutta la popolazione, l’obbligo in alcune regioni, di indossare la mascherina ha come obiettivo evitare che i pochi positivi possano essere un elemento di contagio, e indossare due mascherine chirurgiche è una precauzione che non ha senso, non essendoci prove di un particolare aumento della protezione. Analogamente ha poco senso indossare più mascherine antipolvere o combinazioni di maschere chirurgiche e antipolvere.
  • Negli ambienti di lavoro la mascherina chirurgica può essere sostituita dai dispositivi di protezione delle vie respiratorie previsti dalla valutazione dei rischi, come ad esempio maschere facciali con le varie combinazioni di filtri. I filtri P sono filtri antipolvere (P2, P3).
  • Le mascherine antipolvere sono considerate dal D.Lgs. 475/192 un DPI di III categoria per i quali la legge prevede l’obbligo del datore di lavoro di addestrare i lavoratori al loro utilizzo.
L’improvviso aumento delle necessità di mascherine chirurgiche e di dispositivi di protezione delle vie respiratorie (le cosiddette maschere antipolvere) ha portato alla repentina diminuzione della loro disponibilità sul mercato, a cui la cronaca ha mostrato che non sono stati estranei fenomeni speculativi e di accaparramento. Per cercare di fornire una risposta rapida a questa condizione, il Governo, con il Decreto-legge 17 marzo 2020, ha stabilito nuovi criteri per la produzione, importazione ed immissione in commercio di mascherine chirurgiche e dispositivi di protezione individuale in deroga alle vigenti disposizioni. I produttori e gli importatori che volessero avvalersi di queste nuove regole sono chiamati a trasmettere le specifiche tecniche del prodotto, unitamente ad una autocertificazione, rispettivamente a:
  • l’Istituto Superiore di Sanità, nel caso delle mascherine chirurgiche;
  • l’INAIL, per le mascherine antipolvere.
Agli enti viene lasciato un termine di tre giorni per pronunciarsi sull’idoneità delle attrezzature che, nel frattempo, possono essere importate o prodotte, ma non commercializzate. In caso di parere negativo deve cessare l’importazione o la produzione e i dispostivi non possono essere messi in commercio. Sempre per il motivo della scarsa disponibilità di mascherine di protezione delle vie respiratorie, il medesimo provvedimento eleva a dignità di dispositivo di protezione le mascherine chirurgiche. Nel medesimo articolo, inoltre, viene derogato all’obbligo di marcatura CE per le “mascherine filtranti”. Utilizzare dispositivi di questo genere è giustificabile solo in caso di assoluta necessità; è consigliabile comunque verificare che l’azienda che le produce o le distribuisce sia negli elenchi che ISS e INAIL mantengono aggiornati, con le autorizzazioni concesse. È opportuno che, non appena ci sia la possibilità, si ritorni alle regole consuete.

Misurazione della temperatura

La misurazione della temperatura corporea, al fine di identificare le persone con più di 37,5°C, che non potranno essere ammesse in azienda, è una misura che il datore di lavoro ha facoltà di implementare, secondo il Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro del 24 aprile 2020 (il personale, prima dell’accesso al luogo di lavoro potrà essere sottoposto al controllo della temperatura corporea). Questa misura può essere estesa ai fornitori e al personale dipendente da subappaltatori attivi in azienda. Spetta al datore di lavoro che volesse implementare questo esame, organizzarsi come meglio crede; ci sono sicuramente questioni relative all’esposizione al rischio e alla formazione degli addetti, nonché relative alle modalità operative e al trattamento dei dati personali da prendere in considerazione. Rispettando questi requisiti, un addetto al servizio prevenzione e protezione è una figura come un’altra. Il controllo dell’implementazione di questa come delle misure previste dal Protocollo è affidato al prefetto, in forza al Decreto-legge 19/2020 art. 4 c.9. Questi può avvalersi delle Forze di polizia e, ove occorra, delle Forze armate, sentiti i competenti comandi territoriali, con la possibilità di chiedere la collaborazione dei competenti servizi delle Aziende Sanitarie Locali ed avvalersi del supporto delle articolazioni territoriali dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Quest’ultimo ha pubblicato, con la Nota 149 del 20 aprile 2020, una checklist che i suoi funzionari utilizzeranno allo scopo.

La mancata misurazione della temperatura è sanzionabile?

È necessario specificare, viste le tante domande che lo chiedono, che la mancata adozione di questa regola, la misurazione della temperatura, non è sanzionabile. Secondo il Decreto-legge n. 19/2020, attualmente in esame alle Camere per la conversione in legge, «salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 2, comma 1, ovvero dell’articolo 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all’articolo 3, comma 3». Il fatto è che, così come è scritta la norma, se la lingua italiana e la giurisprudenza hanno ancora un senso, il verbo che viene usato nel Protocollo, “potrà”, definisce una possibilità e non un obbligo, e solo gli obblighi definiscono precetti normativi, la cui mancata osservanza è sanzionata. È sempre possibile che qualche controllore zelante riesca a costruire un percorso che punta alla violazione ad uno degli obblighi che il D.Lgs. 81/2008 mette a carico del datore di lavoro per emettere un foglio di prescrizione, mentre è più facile che la misurazione della temperatura all’ingresso sia prescritta con una disposizione. Si tratta di un provvedimento esecutivo che può essere emesso da un ispettore di un servizio di vigilanza, che può essere sanzionato solo se il datore di lavoro omette di rispettarlo, naturalmente dopo che è stato emesso. Il potere di disposizione è regolato dal D.P.R. 520/1955 Riorganizzazione centrale e periferica del Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Il Protocollo non prevede autocertificazioni per gli ingressi. Nel ragionare di queste procedure, è il caso di chiedersi prima quale obiettivo si vuole perseguire. Mentre la misurazione della temperatura all’ingresso è motivata con l’obiettivo di individuare gli individui che presentano i sintomi, che per quanto siano solo una parte delle persone che hanno l’infezione in essere, meritano comunque di essere trattati, una autocertificazione può avere come fine solo quello di rivalersi verso quella persona che è entrata in azienda dopo avere contratto il COVID-19, causando il contagio di altri. Una concatenazione di eventi oggettivamente difficile da provare, per cui può essere il caso di soprassedere. A chi chiede come si fa ad implementare questa misura, in condizioni di grande afflusso dei lavoratori, occorre rispondere che la misurazione della temperatura è una regola che è stata adottata internazionalmente. Sono disponibili attrezzature che, installate in portali di ingresso, eseguono la scansione in frazioni di secondo, dando l’assenso per l’apertura dei cancelli o bloccando il lavoratore. Comunque, anche per le misurazioni manuali, attrezzandosi con un po’ di buon senso ce la si può fare: ricordo un cantiere all’estero, in un’area in cui il consumo di alcool era una piaga sociale, in cui tutte le mattine per tutti i lavoratori, diverse centinaia, l’accesso era subordinato all’esecuzione di un test antialcool.

Sanzioni

Come ricordato sopra, secondo il Decreto-legge n. 19/2020, art. 4 c.1, attualmente in esame alle Camere per la conversione in legge, «salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 2, comma 1, ovvero dell’articolo 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all’articolo 3, comma 3». Si invita ad una lettura di tutte le condizioni elencate all’articolo 1 comma 2, che sono 29, che possono essere anche sanzionate in modo differente. Da sottolineare che in questa condizione ricade:
  • l’adozione di misure di informazione e di prevenzione rispetto al rischio epidemiologico (lett. ee)
  • la predisposizione del lavoro agile (lett. ff);
  • l’assunzione di misure idonee a evitare assembramenti di persone, con obbligo di predisporre le condizioni per garantire il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale predeterminata e adeguata a prevenire o ridurre il rischio di contagio; per i servizi di pubblica necessità, laddove non sia possibile rispettare tale distanza interpersonale, previsione di protocolli di sicurezza anti-contagio, con adozione di strumenti di protezione individuale (lett. hh).
Viene specificato (articolo 2 comma 1) che queste misure sono adottate con Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, il che significa che violazioni ai vari protocolli, ricadono all’interno di questa disciplina sanzionatoria. Bisogna considerare, però, anche come sono state scritte queste norme: se una cosa è certa, è quella che questo modo superficiale e improvvisato di legiferare avrà sicuramente ripercussioni in termini di contenzioso. Il controllo dell’implementazione delle misure previste dai Protocolli è affidato al prefetto in forza al Decreto-legge 19/2020 art. 4 c.9. Questi può avvalersi delle Forze di polizia e, ove occorra, delle Forze armate, sentiti i competenti comandi territoriali, con la possibilità di chiedere la collaborazione dei competenti servizi delle Aziende Sanitarie Locali ed avvalersi del supporto delle articolazioni territoriali dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Quest’ultimo ha pubblicato, con la Nota 149 del 20 aprile 2020, una checklist che i suoi funzionari utilizzeranno allo scopo.

Documento di valutazione dei rischi

Formazione

Una delle questioni affrontate nel webinar è relativa alla valutazione dei rischi. Questa è una tecnica di project management di uso corrente, il cui approccio filosofico si è andato sviluppando da esperienze nordamericane nell’industria nucleare ed aerospaziale a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso ed oggi è una disciplina ben definita, con sfaccettature che vanno dalla matematica alla filosofia, e che trova la sua applicazione sistematica e sistemica agli ambiti più differenti, dall’industria di processo alla salute, dalla realizzazione di grandi infrastrutture alle assicurazioni. I principi della valutazione dei rischi sono stati adottati dalla comunità professionale che si occupa di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro e, in questa condizione, continuano non solo ad essere validi, ma anche efficaci. La valutazione dei rischi viene utilizzata per individuare le priorità di intervento e dimensionare i controlli, a seconda della magnitudo del rischio. La professionalità, ma anche il Protocollo, stabiliscono che i controlli del rischio debbano essere adattati alle caratteristiche delle varie organizzazioni, ed è una buona prassi produrre registrazioni per questa attività. Che questa sia registrata con un’appendice, piuttosto che con una revisione del documento di valutazione dei rischi aziendali, è una questione che ha rilevanza solo per chi gliela dà. Relativamente alla formazione, fa venire qualche pensiero il fatto che il Protocollo la menzioni solo per giustificarne la sospensione (è da chiedersi con quali effetti, vista la gerarchia delle fonti del diritto…) o la possibilità di eseguirla a distanza. Questo documento, in effetti, individua dei requisiti esclusivamente per l’informazione. Comunque, il datore di lavoro diligente sa che la formazione, inclusa quella sul rischio biologico, è una misura generale di tutela da adottare conformemente agli esiti della valutazione dei rischi.

Cantieri edili

Al momento in cui queste pagine vengono scritte, il Protocollo… nei cantieri edili, nella sua revisione del 24 aprile, è stato ufficializzato come riferimento da seguire per le attività lavorative dal Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 26 aprile 2020, per cui le sue prescrizioni sono cogenti, con il limite di una scrittura improvvida e superficiale. In questo caso le parti sociali, associazioni datoriali e associazioni sindacali, probabilmente hanno commesso un errore nel non invitare al tavolo anche i rappresentanti di ordini e associazioni professionali nonché quelli dei grandi committenti. Questo ha provocato la pubblicazione di un documento che è gravemente interferente con gli obblighi definiti da normative che continuano ad avere preminenza rispetto a questo Protocollo… nei cantieri edili, anche se in qualche modo “santificato” dal DPCM 26 aprile 2020: si tratta del D.Lgs. 81/2008, Testo Unico sulla Sicurezza, e del D.Lgs. 50/2016, detto brevemente Codice dei contratti pubblici. Gli estensori di questo Protocollo nei cantieri edili sembrano sinceramente più preoccupati di precostituirsi una posizione privilegiata di negoziazione della parte economica con il committente piuttosto che di definire una serie di azioni che possano essere adattate alla specificità della produzione edilizia, dal momento che le misure proposte sono la riproposizione verbatim di quelle del Protocollo per tutte le attività lavorative. Naturalmente non è in discussione il fatto che le misure per il controllo del contagio da COVID-19 abbiano un impatto sulla gestione economica dell’impresa o del progetto, e che in qualche modo esso dovrà entrare nello scambio tra committente e appaltatore. Il problema è che l’evidente mancanza di dimestichezza dei redattori del Protocollo… nei cantieri con gli strumenti che sono già previsti dalle norme tuttora in vigore, rischia di trascinarsi dietro responsabilità di altro ordine, per i soggetti improvvidamente chiamati a mettere una pezza alla situazione. Mentre per i cantieri promossi da privati la forma con la quale avviene lo scambio economico tipico del contratto d’appalto ha relativa importanza, se le parti sono d’accordo si può addirittura fare a meno del contratto, questo non è concesso per i cantieri pubblici o quelli soggetti al Codice dei contratti pubblici, il D.Lgs. 50/2016. Qui il rispetto della forma è anche sostanza, il riconoscimento di somme di denaro al di fuori delle modalità previste dalla legge può configurarsi come danno erariale, e il Responsabile Unico del Procedimento è tenuto a vigilare sul rispetto dei principi di legalità, economicità, efficienza e trasparenza dell’azione amministrativa in tutte le attività svolte anche di natura tecnica. Comunque, per tutti i tecnici, sia quelli coinvolti nei cantieri pubblici che per quelli privati, le attività che il Protocollo nei cantieri richiede vengano eseguite, fondamentalmente allo scopo di quantificare le richieste economiche degli appaltatori, per la maggior parte ricadono all’interno dell’ambito di responsabilità dei datori di lavoro, così come è stata definita dal D.Lgs. 81/2008 che, è bene ricordare, non è stato né abrogato né sospeso dai vari provvedimenti emergenziali emessi. Si tratta, ad esempio, della scelta dei dispositivi di protezione individuali per la protezione da rischi che sono chiaramente non attribuibili ad interferenze tra attività lavorative, o della definizione delle modalità organizzative intra-aziendali, spacciate per decisioni di programmazione di cantiere. Per questi casi continua ad essere in vigore anche l’articolo 299 del D.Lgs. 81/2008, dal significativo titolo Esercizio di fatto di poteri direttivi, che sanziona chi entra nel nesso di causalità perché ha usurpato compiti che non gli competevano, come quello, ad esempio, del datore di lavoro. Il nesso di causalità è quella relazione che lega l’incidente avvenuto con gli atti e le decisioni che, a monte, hanno contribuito a causarlo, ed è il fondamento delle imputazioni dei reati di danno. Per questi motivi, chi si troverà a dovere gestire questo labirinto in cui ci hanno cacciato decisioni prese sulla spinta dell’emotività e dell’improvvisazione, è consigliabile che agisca con calma, coinvolgendo tutti i ruoli implicati nei processi, committenti, responsabili dei lavori, appaltatori e rappresentanti dei lavoratori allo scopo di guadagnarsi il supporto di questi interlocutori nel determinare in modo condiviso le modalità con cui saranno gestite le attività, rendendosi parte diligente nell’indirizzare le richieste legittime nei canali che la legge ha predisposto per esse.

Distanze, organizzazione degli spazi e uso delle mascherine

Il Ministero della Salute scrive che il SARS-CoV-2 è un virus respiratorio che si diffonde principalmente attraverso il contatto con le goccioline del respiro delle persone infette, ad esempio tramite:
  • la saliva, tossendo e starnutendo;
  • contatti diretti personali;
  • le mani, ad esempio, toccando con le mani contaminate (non ancora lavate) bocca, naso o occhi.
In rari casi il contagio può avvenire attraverso contaminazione fecale. Non ci sono prove della trasmissione per via ematica. È chiaro che il mantenimento di una distanza di sicurezza tra le persone è una barriera a prevenzione del contagio. Quanto deve essere questa distanza? Potendo, la maggiore possibile, e da qui la necessità di ricorrere al telelavoro, per quanto applicabile: una misura drastica di eliminazione del rischio. È chiaro che l’interposizione di una distanza infinita tra gli esseri umani è la migliore soluzione, ma anche una misura che va a detrimento della vita, non solo professionale e produttiva, per cui, in determinati casi, queste distanze dovranno essere ridotte, fino ad annullarsi. La gerarchia dei controlli ci fornisce lo strumento per definire il miglior mix di misure di prevenzione e protezione, al fine di comunque continuare a fornire la migliore protezione possibile alle persone che sono costrette a stare vicine. Dal momento che la domanda di direttive è innata nell’essere umano, le varie autorità tecniche e amministrative hanno definito una distanza minima, variabile tra un metro e due metri. Il rispetto meccanico di una prescrizione, però, raramente è garanzia di efficacia. Specialmente nell’utilizzo di locali chiusi, come uffici open space, ma anche ristoranti, musei e sale d’attesa, un’analisi critica delle condizioni di uso di questi spazi è doverosa. Per ogni condizione concreta dovranno essere elaborati i modelli con cui questi ambienti vengono utilizzati, considerando accessi, uscite, DPI, durata della sosta, tipologia di utenti, superfici, volumi e come avvengono i ricambi d’aria, ogni quanto vengono puliti e sanificati; dovranno essere valutati i rischi e stabiliti i controlli con la tecnica della gerarchia dei controlli. In particolare, occorrerà tenere presente che i dispositivi di ventilazione sono stati accusati, in estremo oriente, di essere un veicolo di diffusione del contagio, data la loro funzione di muovere l’aria, trasportando aerosol infetti. Qui, come altrove, gli automatismi del Protocollo sono ben lungi da essere automatici, e il contributo di un professionista esperto potrà fare la differenza.
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