Covid-19 e DVR: integrazione necessaria in caso di rischio biologico di infezione?
Un focus dall’approccio giuridico sul DVR in tempi di emergenza Covid-19 a cura dell’Avv. Guido Sola, con il contributo dell’Avv. Nicola Merighi.
Premesso che salute e sicurezza dei lavoratori sono beni giuridici di rilevanza primaria che possono e devono essere tutelati innanzitutto attraverso l’adozione di misure di prevenzione e protezione idonee a ridurre i rischi d’eventi-critici, tra i compiti propri del datore di lavoro, garante ex lege dell’incolumità fisica dei prestatori di lavoro, figura altresì quello di redigere il documento di valutazione dei rischi, il DVR.
Oggetto del DVR, più precisamente, è la valutazione globale di tutti i rischi presenti in azienda [art. 2 lett. q) d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81].
Solo così, infatti, potranno essere individuate le più adeguate misure di prevenzione e protezione; solo così, inoltre, potrà essere elaborato il programma finalizzato a garantire il miglioramento costante del livello di salute e sicurezza.
Come tradizionalmente posto in luce dalla Corte di cassazione, peraltro, nel redigere il DVR, il datore di lavoro:
- potrà essere co-adiuvato dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione – chiamato ex lege ad individuare i fattori di rischio, nonché a valutare e a individuare le misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro anche sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale [art. 33 d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81] –,
- dovrà analizzare ed individuare con il massimo grado di specificità e secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica tutti i fattori di rischio concretamente presenti in azienda – avendo riguardo altresì “alla casistica concretamente verificabile in relazione alle singole lavorazioni o all’ambiente di lavoro” – [Cass. pen., sez. IV, 4 maggio 2018, n. 34311].
Aggiornare periodicamente il DVR è compito del datore di lavoro
Saranno parimenti compiti del datore di lavoro quello d’aggiornare periodicamente l’anzidetto documento in conseguenza d’intervenute modifiche a livello produttivo/organizzativo ovvero dell’evoluzione della tecnica prevenzionistica e sempre specificamente indicando le “misure precauzionali ed i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori”[Cass. pen., sez. IV, 4 maggio 2018, n. 34311; Cass. pen., sez. IV, 10 marzo 2016, n. 20129], nonché quello di “verificarne costantemente la completezza e l’efficacia” [Cass. pen., sez. IV, 11 febbraio 2016, n. 22147], sempre sottoponendolo ad “approfondita analisi critica” [Cass. pen., sez. IV, 20 luglio 2018, n. 34311].
La responsabilità penale del datore di lavoro e del RSPP in caso di infortunio di lavoro
Sotto altro profilo, preme sottolineare, per quel che qui importa, come, nell’ottica della Corte di cassazione, in ipotesi d’infortunio sul lavoro, accanto al datore di lavoro, possa essere chiamato a rispondere in sede penale altresì il responsabile del servizio di prevenzione e protezione. Ciò, più precisamente, ogni qual volta l’infortunio sia riconducibile ad una situazione pericolosa che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare [Cass. pen., sez. IV, 18 marzo 2010, n. 16134].
Come noto, infatti, in queste ipotesi, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione risponderà a titolo di colpa professionale “degli eventi dannosi derivati dai suoi suggerimenti sbagliati o dalla mancata segnalazione di situazioni a rischio”. Risponderà, in altre parole, della propria imperizia, della propria negligenza ovvero dell’inosservanza di leggi o discipline; risponderà, insomma, di ciò che ha indotto il datore di lavoro “ad omettere l’adozione delle doverose misure prevenzionali” [Cass. pen., sez. IV, 18 marzo 2019, n. 11708].
La conclusione che precede, per quanto netta, non deve stupire: nell’ottica della Corte di cassazione, infatti, pur non avendo ruolo gestionale, ma meramente consulenziale, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è colui su cui grava l’obbligo giuridico “di adempiere diligentemente l’incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all’attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli”, anche disincentivando, se del caso, “eventuali soluzioni economicamente più convenienti” ove le stesse s’appalesino rischiose per la sicurezza dei lavoratori [Cass. pen., sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343].
Sotto altro profilo ancora, preme sottolineare, sempre per quel che qui importa, come, nell’ottica della Corte di cassazione, in ipotesi d’infortunio sul lavoro, il datore di lavoro e il responsabile del servizio di prevenzione e protezione possano sì essere chiamati a rispondere in sede penale, ma unicamente se:
a) la loro condotta risulti caratterizzata da violazione di regole cautelari;
b) gli stessi potessero prevedere, con giudizio ex ante, lo specifico evento-critico verificatosi e potessero attivarsi onde scongiurare il medesimo [con l’avvertenza che, in queste ipotesi, la violazione delle regole cautelari, in sé considerata, non è sufficiente per fondare l’affermazione di penale responsabilità, dovendosi il giudice interrogare altresì circa il fatto che l’evento-critico derivatone “rappresenti o meno la concretizzazione del rischio” che le anzidette regole cautelari miravano a prevenire. Cass. pen., sez. IV, 6 dicembre 2016, n. 3313].
Quanto alla menzionata prevedibilità dell’evento-critico, non pare superfluo ricordare, in questa sede, come, nell’ottica della Corte di cassazione, si debba avere riguardo, a tale fine, “alla potenziale idoneità della condotta a dare vita ad una situazione di danno” [Cass. pen., sez. IV, 6 dicembre 1990, n. 4793].
Così impostata la questione, insomma, prevedibilità significa “porsi il problema delle conseguenze di una condotta omissiva”; la qual cosa – chiariscono i supremi giudici – va fatta “avendo presente il modello dell’uomo che svolge paradigmaticamente una determinata attività che importi l’assunzione di determinate responsabilità”: in quest’ottica, “la comunità esige che l’operatore si ispiri a quel modello e faccia tutto ciò che da lui ci si aspetta”[Cass.pen., sez. IV, 11 giugno 2013, n. 25647].
Tutto ciò chiarito, è fondamentale osservare come la giurisprudenza di legittimità non ignori che, soprattutto nelle imprese medio-grandi, il datore di lavoro sia sovente un manager capace di “fare business”, ma privo di quelle competenze tecnico-scientifiche che s’appaleserebbero necessarie “per individuare le fonti di rischio e scongiurare il pericolo di eventi infausti”.
Ma, nonostante ciò, la tendenza è e resta quella di non valorizzare quanto sopra in chiave difensiva: nell’ottica della Corte di cassazione, insomma, “ove la violazione delle prescrizioni cautelari rappresenti il nucleo di una condotta produttiva di un evento illecito”, il datore di lavoro che “abbia cooperato con la propria condotta agevolatrice alla produzione dell’evento”, per questo solo, ne risponderà e ciò a prescindere dal fatto che la fonte di pericolo erroneamente non valutata non fosse riconoscibile da parte di questi per non essere il medesimo in possesso delle necessarie competenze tecnico-scientifiche [Cass. pen., sez. IV, 3 giugno 2014, n. 38100; Cass. pen., sez. IV, 17 marzo 2015, n. 26933].
DVR e Covid-19: il rischio biologico come rischio professionale
Ragionando, qui giunti, di rischio biologico di infezione da virus Covid-19 e premesso che l’anzidetto rischio biologico contrassegna un vero e proprio rischio professionale – nello stesso senso sembrerebbe deporre altresì l’art. 42 comma 2 d.l. 17 marzo 2020, n. 18 –, preme osservare quanto segue.
E’ certamente onere di tutti i datori di lavoro quello d’integrare il documento di valutazione dei rischi, passando specificamente in rassegna altresì l’anzidetto rischio biologico.
Cosa dice l’INAIL sul DVR in emergenza da Covid-19?
In questi stessi termini, peraltro, s’è recentemente espressa anche l’INAIL: in sede di proprio Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione datato 23 aprile 2020, infatti, l’anzidetto Istituto ha espressamente affermato la necessità d’integrare il documento di valutazione dei rischi con “una serie di azioni” finalizzate a prevenire il rischio di infezione da virus Covid-19 in ambiente di lavoro, con ciò contribuendo altresì “alla prevenzione della diffusione dell’epidemia”.
Nell’ottica dell’INAIL, più precisamente, le anzidette azioni devono essere classificate in:
a) misure organizzative;
b) misure di prevenzione e protezione;
c) misure specifiche per la prevenzione dell’attivazione di focolai epidemici.
Le anzidette misure, a loro volta, possono essere classificate in:
a) misure organizzative sub specie di: a.1) “gestione degli spazi di lavoro” – con conseguente rimodulazione degli stessi in vista del c.d. distanziamento sociale – e a.2) “organizzazione ed orario di lavoro” – con conseguente rimodulazione vuoi degli orari di lavoro vuoi dei processi produttivi –;
b) misure di prevenzione e protezione sub specie di:
b.1) informazione e formazione,
b.2) misure igieniche e di sanificazione degli ambienti – rispetto alle quali appare preminente l’invito a porre in essere una “sanificazione regolare, periodica ed approfondita degli ambienti di lavoro” che risulti tarata sulle specifiche esigenze della singola attività e che non tralasci nessuno degli strumenti più frequentemente utilizzati –,
b.3) utilizzo di mascherine e dispositivi di protezione individuali per le vie respiratorie
b.4) sorveglianza sanitaria e tutela dei lavoratori fragili;
c) misure specifiche per la prevenzione dell’attivazione di focolai epidemici sub specie di richiesta d’attivazione da parte dei datori di lavoro di procedure di controllo della temperatura corporea dei lavoratori, con correlativa previsione di misure di isolamento per quelli che dovessero registrare temperature superiori a 37,5°.
In difetto e come visto nei paragrafi precedendti, avendo omesso d’adottare le necessarie cautele ed avendo con ciò esposto i lavoratori all’anzidetto rischio biologico, i datori di lavoro e i responsabili del servizio di prevenzione e protezione potranno essere chiamati a rispondere in sede penale, a titolo di lesioni personali colpose [art. 590 c.p.] ovvero d’omicidio colposo [art. 589 c.p.] – qui aggravati dalla violazione della normativa anti-infortunistica –, dell’infortunio che, in conseguenza di quanto sopra, i medesimi dovessero avere subito.
In collaborazione con ScNet, Soluzioni per le imprese

