Edilizia

Una veranda non è pertinenza: serve il permesso di costruire

Tar Campania: una veranda è da considerarsi, in senso tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile
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Una veranda non è pertinenza: serve il permesso di costruire
Veranda e permesso di costruire: una questione affrontata di continuo dalla giurisprudenza. Questa volta se ne è occupato il Tar Campania che, nella sentenza n. 4280 del 22 giugno 2021, interviene sul titolo edilizio necessario per la realizzazione di una veranda. Il caso riguarda il ricorso per l’impugnazione della disposizione dirigenziale di eseguire il ripristino dello stato dei luoghi entro 30 giorni, in relazione a presunte opere edilizie abusive consistenti in due verande in alluminio anodizzato e vetri, rispettivamente di m. 8 x 1,2 x 3 di altezza e di m. 2,5 x 1,2 x 3. Il ricorrente sosteneva, tra l’altro, il difetto di motivazione del provvedimento, la mancanza di valutazione del pregiudizio che dalla demolizione della veranda sarebbe derivato alla porzione di manufatto legittimamente edificata; e la natura pertinenziale delle opere contestate.

La veranda non è opera minimale né pertinenziale

Il Tar ha ritenuto infondato il ricorso, in quanto la veranda non può essere considerata né un’opera minimale né pertinenziale. Infatti, secondo il costante orientamento della giurisprudenza, la nozione di “pertinenza urbanistica” non può consentire la realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato principale. Infatti, il carattere pertinenziale in senso urbanistico si riconosce alle opere che, per loro natura:
  •  risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un manufatto principale
  • siano prive di autonomo valore di mercato
  • e non valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono.

Anche le tettoie richiedono il permesso di costruire (a meno che siano di dimensioni ridotte)

Nemmeno gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture analoghe che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime della concessione edilizia (permesso di costruire) soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell’immobile cui accedono. Tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all’edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite. Nel caso in esame, le verande non erano tali da essere, in senso urbanistico, ‘assorbite’ o qualificate come meramente accessoria al manufatto principale. Di cui, peraltro, modificavano la sagoma e il prospetto.

Con variazione planovolumetrica e architettonica serve il titolo edilizio

A sostegno della decisione, viene citata la sentenza della Corte di Cassazione penale, sez. III, n. 14329 del 10 gennaio 2008. Secondo la quale “gli interventi edilizi che determinano una variazione planovolumetrica e architettonica dell’immobile nel quale vengono realizzati, quali le verande edificate sulla balconata o sul terrazzo di copertura di un appartamento, sono soggetti al preventivo rilascio di permesso di costruire. Ciò in quanto, in materia edilizia, una veranda è da considerarsi, in senso tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti con la sua successiva rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell’immobile. Non è rilevante la natura dei materiali utilizzati per tale chiusura, in quanto la chiusura, anche ove realizzata con pannelli in alluminio o in legno, costituisce comunque un aumento volumetrico. Nel caso trattato, una parte del manufatto era realizzata in muratura. E le strutture, fissate in maniera stabile al pavimento, comportavano la chiusura di una parte del balcone o del terrazzo, con conseguente aumento di volumetria.

Con la modifica dei prospetti è ristrutturazione edilizia

In materia urbanistico-edilizia il presupposto per l’esistenza di un volume edilizio è costituito dalla costruzione di (almeno) un piano di base e due superfici verticali contigue, così da ottenere appunto una superficie chiusa su un minimo di tre lati. Dato che gli interventi in oggetto determinavano la modifica dei prospetti, la realizzazione di tali opere è qualificabile come intervento di ristrutturazione edilizia, nella misura in cui realizza “l’inserimento di nuovi elementi ed impianti”, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, laddove comporti, come nel caso trattato, una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui inerisce.

Non occorre motivare il provvedimento di demolizione

Per quanto riguarda il difetto di motivazione, il Tar Campania ricorda che, in presenza di opere abusive, l’ordine di rimessione in pristino è da intendersi come provvedimento doveroso. L’abusività delle opere rende, infatti, l’ordine di demolizione rigidamente vincolato ragion per cui esso non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d’interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati non essendo, peraltro, configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto. Neppure è richiesta una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione in rapporto all’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio e al già elevato grado di urbanizzazione dell’area; l’interesse pubblico alla demolizione è, infatti, ‘in re ipsa’, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato. Per disporre la demolizione è, quindi, sufficiente il richiamo dell’abusività dell’opera in rapporto alla strumentazione urbanistica e di tutela paesaggistica, senza che occorra, per la piana applicazione della normativa di settore, alcuna altra precisazione.

Nessuna deroga

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nella sentenza n. 9/2017, ha affermato il seguente principio di diritto: “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”. Nel caso in esame, l’abuso è stato precisamente descritto nella propria entità e ubicazione, così come sono state ben individuate le norme applicate. Quindi, nessun difetto di motivazione è imputabile al provvedimento impugnato.

Il pregiudizio alla parte legittima del manufatto

Sul motivo del pregiudizio che la demolizione avrebbe arrecato alla parte legittima del manufatto, la sentenza precisa che, mentre l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non abbia ottemperato spontaneamente alla demolizione e l’organo competente emani l’ordine di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso. Soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all’entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta dell’interessato in tal senso. Inoltre, nel caso specifico, l’affermazione sul danno che sarebbe derivato alla parte legittimamente edificata del manufatto non era supportata da elementi tecnici atti a dimostrare la sussistenza del pregiudizio di cui l’amministrazione si sarebbe dovuta far carico. Il che preclude l’accoglimento del motivo di ricorso, dato che la sanzione pecuniaria va disposta, in via alternativa, “soltanto” nel caso in cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione e, quindi, “soltanto” nel caso in cui risulti “in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso senza che, pertanto, possano venire in rilievo aspetti relativi all’eccessiva onerosità dell’intervento”. Tar Campania, sentenza n. 4280 del 22 giugno 2021
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