Distanze tra edifici, ammesse deroghe regionali

Anche le distanze tra edifici al vaglio della Corte Costituzionale. Con la sentenza n. 13 del 7 febbraio 2020, si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale dell’articolo 103, comma 1-bis, della legge regionale n. 12/2005 della Lombardia, sollevata dal Consiglio di Stato. La Corte Costituzionale ha respinto le motivazioni del Consiglio di Stato e affermato la legittimità della normativa regionale.
La norma contestata impone il rispetto della distanza minima di 10 metri tra le nuove costruzioni e consente delle deroghe solo all’interno dei piani attuativi. Tali deroghe alle disposizioni sulle distanze contenute nell’articolo 9 del Dm n.1444/1968, costituivano, a parere del Consiglio di Stato, una violazione ai limiti della legislazione concorrente in materia di governo del territorio.
Le distanze minime tra edifici
L’articolo 9 del Dm n.1444/1968 impone limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati. Ma anche rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi. Bisogna osservarli ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti.
Dal giugno 2019, per effetto del decreto Sblocca Cantieri, le distanze minime tra edifici si applicano obbligatoriamente solo alle zone C di espansione. Nelle altre zone, ogni Ente può decidere quali regole seguire, tenendo presente che gli interventi di demolizione e ricostruzione sono consentiti nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti. Bisogna inoltre assicureare la coincidenza dell’area di sedime, del volume e dell’altezza dell’edificio ricostruito con quello demolito.
L’art. 2 del d.m. n. 1444 del 1968 identifica le zone territoriali omogenee C nelle “parti del territorio destinate a nuovi complessi insediativi, che risultino inedificate o nelle quali l’edificazione preesistente non raggiunga i limiti di superficie e densità” delle zone B, caratterizzate da una “superficie coperta degli edifici esistenti” non inferiore “al 12,5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona” e da una “densità territoriale “superiore ad 1,5 mc/mq”.
Per le zone territoriali omogenee C, l’art. 9, primo comma, numero 3), del dm n. 1444 del 1968 prescrive “tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all’altezza del fabbricato più alto“, anche nell’ipotesi in cui “una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml 12”.
Il ricorso del Consiglio di Stato sulle distanze tra edifici
La questione era sorta nel decidere sull’impugnazione della variante del piano di governo del territorio del Comune di Sondrio, volta a sottrarre “le zone di nuova edificazione ed urbanizzazione“, poste all’interno del “tessuto urbano consolidato”, all’applicazione della disciplina più rigorosa, che impone la maggiore distanza pari all’altezza dell’edificio più alto.
Il Consiglio di Stato richiamava la giurisprudenza della Corte Costituzionale. Questa riconduce la disciplina delle distanze minime alla competenza esclusiva statale nella materia “ordinamento civile”. E ammette un intervento regionale in senso derogatorio soltanto mediante “strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio”.
La posizione della Regione Lombardia
La Regione Lombardia, intervenuta nel procedimento, aveva sottolineato che la disposizione censurata riguarderebbe la sola fase dell’adeguamento dei piani alle previsioni della legge regionale. Ma non la successiva revisione dei piani di governo del territorio già approvati.
Secondo la Regione Lombardia, la distanza minima pari all’altezza del fabbricato più alto non rappresenterebbe una previsione inderogabile. Sarebbe inderogabile soltanto la distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri, salvaguardata dalla legge regionale n. 12 del 2005 e dallo stesso piano di governo del territorio del Comune di Sondrio. La disposizione censurata, peraltro, risulta conforme alla legislazione statale, in quanto contemplerebbe una deroga circoscritta a “un arco temporale limitato” e connessa a “strumenti di revisione globale del territorio”. Non si tratterebbe, pertanto, di interventi su singoli edifici, svincolati dalla pianificazione urbanistica.
La disciplina regionale salvaguarda, per i soli interventi di nuova costruzione, “il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri”. E ne consente la deroga soltanto “tra fabbricati inseriti all’interno di piani attuativi e di ambiti con previsioni planivolumetriche oggetto di convenzionamento unitario”.
La distanza minima di dieci metri, nel rispetto di quanto previsto dagli artt. 873 e 907 del codice civile, è altresì “derogabile per lo stretto necessario alla realizzazione di sistemi elevatori a pertinenza di fabbricati esistenti che non assolvano al requisito di accessibilità ai vari livelli di piano” (art. 103, comma 1-ter, della legge regionale n. 12 del 2005).
La pronuncia della Corte Costituzionale
La sentenza in esame afferma che “l’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio e a una razionale pianificazione urbanistica circoscrive rigorosamente la competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici e ne vincola anche le modalità di esercizio”.
L’art. 9, ultimo comma, del dm n. 1444 del 1968 rappresenta “il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in materia di ordinamento civile e quella regionale in materia di governo del territorio e consente di fissare distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale nel solo caso di “gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
La disposizione censurata esclude l’applicazione delle previsioni del dm n. 1444 del 1968 solamente “ai fini dell’adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti” alla legge regionale per il governo del territorio del 2005. E quindi si colloca in un orizzonte temporale definito, legato all’adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti e alla successiva transizione ai piani di governo del territorio. Questi si configurano come i nuovi strumenti di pianificazione urbanistica previsti dalla legislazione regionale.
La Corte Costituzionale ha respinto la questione di illegittimità in quanto il Consiglio di Stato non ha dimostrato che il provvedimento impugnato, posteriore alla fase transitoria di adeguamento, rinviene il suo fondamento nella disciplina sottoposta al vaglio della Corte e contraddistinta da presupposti applicativi rigorosi.