Il Consiglio di Stato, nella
sentenza n. 2575 del 26 marzo 2021, tratta della correlazione tra condono edilizio e
agibilità/abitabilità del fabbricato, in un caso sorto per ricorso avverso il provvedimento di un Comune che annullava in autotutela il silenzio-assenso formatosi (per decorso del termine di 180 gg. ex art. 86, comma 4, lr Toscana n. 1/2005) sull’
autocertificazione di abitabilità, in relazione alla concessione in sanatoria rilasciata in accoglimento di un
‘istanza di condono edilizio, avente ad oggetto un intervento costituito dalla fusione di due unità immobiliari ad uso garage con opere interne e cambio di destinazione d’uso in civile abitazione, poste al piano terra di un edificio residenziale condominiale.
Il provvedimento di annullamento d’ufficio (adottato a definizione di un procedimento in autotutela avviato su impulso di alcuni condomini) era motivato dall’
inosservanza dell’altezza interna minima di m 2,70, stabilita per i vani abitabili dal dm 5 luglio 1975.
Il certificato di abitabilità in deroga per condono edilizio
La sentenza chiarisce che “il rilascio del certificato di abitabilità di un fabbricato, conseguente al condono edilizio, può legittimamente avvenire in deroga solo ad
autonome e autosufficienti disposizioni regolamentari e non anche quando siano carenti condizioni di salubrità richieste invece da fonti normative di livello primario, poiché la disciplina del condono edilizio, per il suo
carattere eccezionale e derogatorio, non è suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio della tutela della salute, con evidenti riflessi sul piano della legittimità costituzionale.
I giudici del Consiglio di Stato citano la
sentenza della Corte costituzionale n. 256/1996, che esclude “una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune
verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo
le disposizioni sanitarie e quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica”, e quindi “permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l’abitabilità degli edifici, con l’unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari”.
Violazione delle norme in tema di altezza minima
E’ quindi da escludersi che l’art. 35, comma 20, l. n. 47/1985 contenga una
deroga generale e indiscriminata alle norme che presidiano i requisiti di abitabilità degli edifici; e ciò proprio perché la detta legge intende contemperare valori tutti costituzionalmente garantiti, quali, tra gli altri, da un lato il diritto alla salute e, dall’altro, il diritto all’abitazione e al lavoro. Una interpretazione che validi una deroga generale e indiscriminata alla normativa a tutela della salute si porrebbe, dunque,
in contrasto non solo con l’art. 32 Cost., ma anche con quelle stesse esigenze di contemperamento tra diversi valori costituzionali, sottese all’impianto normativo della legge n. 47/1985.
Nel caso di specie, la
violazione delle norme in tema di altezza minima previste dal decreto del Ministro della Sanità del 5 luglio 1975 – il cui primo comma testualmente recita: “L’altezza minima interna utile dei locali adibiti ad abitazione è fissata in m 2,70, riducibili a m 2,40 per i corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli” – concretizza il generico imperativo della norma primaria (artt. 218 e 221 Tu leggi sanitarie), sostanziandone il contenuto minimo inderogabile in funzione della tutela della salute e sicurezza degli ambienti, con la conseguenza che
la verifica dell’abitabilità non può prescinderne.
Il limite temporale del potere di autotutela
La sentenza chiarisce anche che il limite temporale dei
18 mesi per l’esercizio del potere di autotutela, introdotto dall’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che abbia ottenuto un atto ad esso favorevole (nella specie, formatosi per silenzio-assenso), trova applicazione
solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento di formazione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se tale comportamento contribuito in modo determinante alla formazione dell’atto favorevole.
Testo della sentenza.