Restauro architettonico, reversibilità e compatibilità: intervista a Giovanni Carbonara
Prof. Carbonara, la reversibilità e la compatibilità, insieme alla distinguibilità e al minimo intervento, sono concetti chiave nel restauro architettonico. Di essi si è anche parlato in un recente convegno a Mestre.
Nel corso della sua definizione disciplinare, durata diverso tempo e venuta a maturazione tra Settecento e Ottocento, nell’ambito del restauro sono emersi alcuni concetti ancora oggi validi che possiamo chiamare princìpi-guida. Il primo concetto, quello della reversibilità, risponde all’idea che il restauro è un intervento fondato su un’ipotesi critica e in quanto tale può essere messo in discussione. Esso quindi deve essere reversibile o anche ri-lavorabile. Può capitare difatti che ci si accorga di un errore e che si debba rimettervi mano lasciando sempre intatto l’originale.
Il secondo concetto è quello della distinguibilità, che risponde al criterio di non confondere le carte della storia. Quanto si fa deve rientrare in una logica formale, lasciar leggere e capire il monumento mentre da vicino si deve distinguere ciò che è integrazione e ciò che invece è originale.
Il terzo criterio, importantissimo, è quello del minimo intervento. Le testimonianze antiche nella loro autenticità vanno rispettate il più possibile in quanto portatrici di valori, informazioni, stimoli di qualunque genere. Quindi l’ideale è studiare molto per fare poco e questo si può realmente attuare nel campo delle strutture o del restauro dei materiali al fine di ridurre la pesantezza dell’intervento.
L’ultimo concetto, emerso più recentemente, quando sono entrati in gioco tecniche e materiali moderni, è quello della compatibilità: quanto si fa o si aggiunge deve convivere bene con l’antico senza correre il rischio di danneggiarlo come è stato fatto, ad esempio, attraverso l’uso improprio del cemento in prossimità o a contatto di superfici affrescate.
Per quanto concerne la compatibilità, quali sono oggi i materiali più usati? È possibile prevedere se questi risulteranno compatibili ed efficaci tra dieci o vent’anni?
Oggi rispetto al passato siamo più attenti alla compatibilità. Un tempo si pensava che un materiale super resistente e tecnologicamente molto buono fosse l’ideale per interventi di restauro, ma non sempre è così. Oggi si pensa che il materiale debba avere un comportamento analogo, o anche prestazioni leggermente inferiori, rispetto a quelle del materiale antico, in modo che, in caso di attacco, si danneggi prima il nuovo e poi l’antico.
In merito alle prospettive future non è possibile fare previsioni. Probabilmente, per quanto riguarda un uso un po’ smodato delle resine, ho l’impressione che queste non abbiano una vita, una durabilità paragonabile a quella dei monumenti. Non so come potranno reagire alcune resine tra venti, trenta o cinquant’anni, mentre altri materiali, come per esempio il titanio, sono splendidi perché hanno molte qualità e pochissimi difetti.
Per quanto riguarda i materiali nuovi, noto che si sono fatti molti passi avanti nell’applicazione delle nanotecnologie, così come anche delle biotecnologie: mi riferisco, ad esempio, all’uso di batteri per intervenire su affreschi sbiancati o aggrediti. L’affinamento chimico-fisico e biotecnologico apre quindi la strada a interventi più soft. In generale possiamo comunque affermare che oggi facciamo esperimenti e interventi in modo più accorto rispetto al passato anche recente, con conseguente riduzione dei rischi e degli effetti sui beni oggetto di restauro.
Quali sono a suo avviso i casi di restauro esemplari e realizzati di recente in cui si possano anche riscontrare i concetti chiave di cui abbiamo parlato?
Partirei dall’esempio del Duomo di Spoleto. Questa magnifica chiesa ha conservata intatta la facciata medievale, mentre il corpo retrostante è in gran parte barocco. La facciata risultava però separata dalla chiesa da una lesione muraria larga vari centimetri. Grazie ad uno studio molto approfondito del collega Antonino Gallo Curcio, rispetto a cuciture in cemento armato pensate da altri ingegneri si è arrivati ad un intervento minimo con bretelle e tiranti. Mi sembra un bellissimo esempio di intervento minimale.
Citerei anche un altro intervento di restauro, che riguarda la cosiddetta rotonda delle Terme di Diocleziano a Roma, a cura dell’architetto Giovanni Bulian: una sala romana successivamente trasformata in planetario e da ultimo destinata a sala museale per i grandi capolavori. In questo caso l’architetto ha avuto la sensibilità di far convivere la fase romana, quella novecentesca del planetario e quella moderna del museo in un tutt’uno, utilizzando le colonne di ghisa che reggevano la rete del planetario come condotte per l’aria condizionata e la rete del planetario come sostegno per l’illuminazione. Quando si riesce a sposare conservazione, funzionalità, impiantistica (molte volte invasiva) e strutture, il risultato dell’intervento di restauro è molto interessante. In questo caso anche la sistemazione museale è stata valorizzata.
Esistono altri buoni esempi, forse non tantissimi, ma si spera che si moltiplichino: soprattutto mi auguro che si prenda l’abitudine di affidare il restauro a chi ha competenze vere nel settore.
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