Edilizia

Permesso di costruire: per impugnarlo non basta la vicinitas

Il Consiglio di Stato chiarisce che Il ricorrente deve fornire la prova del pregiudizio, sulla base della piena conoscenza del provvedimento impugnato, e distingue due momenti da cui decorre il termine per presentare ricorso, in relazione ai motivi di contestazione del titolo edilizio
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Permesso di costruire: per impugnarlo non basta la vicinitas

Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 962 del 7 febbraio 2020, ha respinto l’appello proposto dai proprietari di alcuni edifici, nei confronti di un permesso di costruire rilasciato dal Comune su un’area attigua, affermando che per impugnare un titolo edilizio non basta solo il requisito della cd. ‘vicinitas’ ma occorre anche la dimostrazione di un danno che comprovi la legittimazione a ricorrere contro il permesso di costruire. E’ quindi necessario provare il pregiudizio patito (patrimoniale o dovuto a un peggioramento delle condizioni di vista o dei caratteri urbanistici che caratterizzano l’area).

Il fatto: demolizione e ricostruzione con aumento di cubatura

I proprietari di fabbricati residenziali avevano fatto ricorso contro il permesso di costruire rilasciato dal Comune su un’area di prossimità,  interessata dalla demolizione di un immobile costituito da due piani fuori terra e la sua successiva ricostruzione, con contestuale ampliamento realizzato mediante la volumetria residua aumento del lotto e l’aumento di cubatura (bonus volumetrico del cd. Piano casa). Annullamento richiesto per:

  • aver escluso dal calcolo del volume assentito il piano sottotetto, idoneo a fini abitativi;
  • la violazione degli artt. 8 (altezze) e 9 (distanze) del Dm 1444/1968;
  • non aver valutato il significativo carico urbanistico del progetto assentito.

Il Tar ha dichiarato inammissibile il ricorso per difetto di interesse. Questo perché “la legittimazione ad agire e l’interesse a ricorrere non avrebbero potuto derivare dalla sola vicinitas, ma si sarebbe dovuto provare il reale pregiudizio derivante dall’intervento contestato”.

I ricorrenti si erano appellati al Consiglio di Stato sostenendo che avevano compreso di aver avuto piena conoscenza del permesso di costruire soltanto all’esito della seconda domanda di accesso agli atti e che l’interesse a ricorrere per l’annullamento di un titolo edilizio sarebbe disceso in loro favore dalla “posizione qualificata” di proprietari finitimi all’erigendo edificio, senza effettuare indagini in ordine al concreto pregiudizio che i lavori fossero in grado di produrre”.

Non basta la vicinitas per impugnare un titolo edilizio

Ai giudici di secondo grado amministrativo non è apparso evidente come la trasformazione edilizia contestata potesse incidere in via immediata e diretta sulla sfera giuridica dei ricorrenti, i quali hanno addotto a giustificazione del loro interesse all’impugnazione un generico profilo di depauperamento della condizione edilizia della zona.

L’invocata vicinitas può fondare la legittimazione ad agire – si legge nella sentenza – ma va poi accompagnata dalla presenza di una lesione concreta ed attuale della posizione soggettiva di chi impugna il titolo edilizio. In altri termini, lo stabile collegamento con l’area interessata dalle opere edilizie non è sufficiente a comprovare anche l’interesse ad agire che è invece derivante da un concreto pregiudizio per l’interessato.

“La sussistenza del requisito della “vicinitas” in caso di impugnazione di titoli edilizi non costituisce elemento sufficiente a comprovare la legittimazione a ricorrere e l’interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione di un danno che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente. Il ricorrente deve fornire la prova del pregiudizio patito e patiendo (sia di carattere patrimoniale o di deterioramento delle condizioni di vita o di peggioramento dei caratteri urbanistici che connotano l’area) a causa dell’intervento edilizio.”

La piena conoscenza del provvedimento da impugnare

La sentenza chiarisce anche che “la piena conoscenza del provvedimento da cui decorre il termine per poter impugnare il permesso non deve essere intesa quale conoscenza piena ed integrale del provvedimento stesso, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività  del potenziale ricorrente.” Insomma, è sufficiente sapere che c’è un provvedimento in cui è possibile riconoscere elementi di pregiudizio verso terzi.

La piena conoscenza, nel caso specifico, è stata desunta da elementi incontrovertibili quali la residenza degli appellanti in prossimità  del luogo di edificazione, la presenza del cartello lavori, il tempo trascorso (circa tre anni fra l’inizio dei lavori e la notifica del ricorso di primo grado) e lo stato di avanzamento dei lavori (verbale dei vigili urbani sull’ultimazione degli stessi).

La sentenza ricorda anche la previsione dell’istituto dei motivi aggiunti, per il tramite dei quali il ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già  esistenti al momento dell’introduzione del giudizio, ma ignoti) o dalla conoscenza integrale di atti prima non pienamente conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta.

Da quando decorre il termine per il ricorso

A proposito del termine di 60 giorni entro cui si può presentare ricorso, il Consiglio di Stato distingue due momenti da cui calcolarlo:

  • l’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area ovvero laddove si contesti, la violazione delle distanza;
  • il completamento dei lavori o dal grado di sviluppo degli stessi, ove si contesti il dimensionamento, la consistenza ovvero la finalità  dell’erigendo manufatto.
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