Edilizia
Permesso di costruire e distanza tra edifici: urbanistica VS viabilistica
Permesso a costruire e limiti di distanza dalle strade: un confronto tra la disciplina urbanistica e viabilistica in merito
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Un privato ha inteso presentare la competente Comune un’istanza per ottenere il permesso a costruire, ma si è visto recapitare un diniego per supposta violazione delle norme a presidio dei limiti di distanza dalle strade. Di qui il ricorso al T.A.R., che dapprima ha respinto il ricorso, e poi l’appello al Consiglio di Stato, che lo ha accolto.
Il problema emerso all’attenzione del Consiglio di Stato, che si è espresso con la Sentenza n. 3900 del 17 giugno 2020, è relativo alla disciplina delle fasce di rispetto stradale applicabile nelle costruzioni fuori dal centro abitato, chiarendo la portata della norma transitoria di cui all’art. 234, comma 5, del Codice della Strada. Punto essenziale della controversia, è infatti l’esatta disciplina applicabile in materia di distanze dalla sede stradale dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, cd. “Nuovo Codice della Strada”. Dalla norma richiamata risulta che l’applicabilità della disciplina contenuta nel combinato disposto di cui agli artt. 16 del Codice e 26 del relativo regolamento di attuazione, è condizionata al verificarsi del seguente duplice presupposto:
a) delimitazione dei centri abitati prevista dall’art. 4;
b) la classificazione delle strade, demandata ad appositi provvedimenti attuativi dall’art. 2, comma 2.
Il Comune competente, pur classificando la strada statale sulla base delle indicazioni di cui all’art. 2 del Codice della Strada, ha poi ritenuto di dover fare applicazione della disciplina previgente, invocando il regime delle distanze previsto dalla omonima, ma strutturalmente diversa, categoria delle “strade di media importanza”, egualmente denominate come “C” nella elencazione di cui all’art. 3 del decreto interministeriale n. 1404/1968. Ciò in applicazione della disciplina transitoria di cui all’art. 234, comma 5, D.Lgs. n. 285/1992, con i risultati sopra delineati.
Cosa accade in mancanza di tali condizioni o nelle more dei relativi adempimenti? Le norme previgenti, che devono continuare a trovare applicazione, sono quelle contenute nel decreto interministeriale 1° aprile 1968, n. 1404, che detta le distanze minime a protezione del nastro stradale da osservarsi nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati, di cui all’art. 19 della L. n. 765 del 1967.
La distinzione delle strade ivi contenuta all’art. 3 D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, comma 1, «in rapporto alla loro natura ed alle loro caratteristiche», non appare affatto sovrapponibile alla assai più articolata prospettazione codicistica, pur potendo casualmente coincidere la riconducibilità di alcune fattispecie concrete alla medesima tipologia nominalistica, con particolare riferimento alla “C”, corrispondente a quelle “di media importanza”, di sicuro connotata da maggior genericità di inquadramento (che possono comprendere strade statali, provinciali e comunali, purché di dimensioni consistenti).
Allo stesso modo, la delimitazione del “centro abitato” necessaria quale condizione di applicabilità della nuova normativa è soltanto quella di cui all’art. 4 del Codice della Strada.
Mettendo a confronto entrambe le discipline, quella previgente e l’attuale, si nota il comune intento nel voler salvaguardare l’autonomia programmatoria in materia urbanistica degli enti territoriali, condizionando il più rigoroso regime delle distanze all’esistenza o meno di una disciplina edificatoria. In tale ottica, mentre il comma 3 dell’art. 26 del D.P.R. n. 495/1992 (Regolamento di esecuzione del Codice), prevede, per quanto di interesse in relazione alle strade di tipologia “C”, la minore distanza di m. 10 ove si versi al di fuori dei centri abitati, «ma all’interno delle zone previste come edificabili o trasformabili dallo strumento urbanistico generale, nel caso che detto strumento sia suscettibile di attuazione diretta, ovvero se per tali zone siano già esecutivi gli strumenti urbanistici attuativi»; l’art. 1 del decreto 1° aprile 1968, n. 1404, esclude genericamente dal proprio ambito di applicabilità sia i centri abitati sia gli «insediamenti previsti dai piani regolatori generali e dai programmi di fabbricazione».

