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Dal G20 alla COP26: i Paesi sono preparati alla sfida climatica?

Secondo i dati del Climate transparency report le emissioni dei Paesi del G20 sono in aumento. Ma alla COP26 è arrivato a sorpresa l'accordo Cina-Usa. Un segnale positivo?
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Dal G20 alla COP26: i Paesi sono preparati alla sfida climatica?
G20 e COP26. Le ultime settimane sono state segnate da due appuntamenti fondamentali per la lotta al cambiamento climatico. Cosa ne è venuto fuori e soprattutto cosa ne verrà fuori? La preparazione Le ultime da Glasgow Il Climate transparency report e l’inadeguatezza delle attuali politiche I numeri parlano da soli È tutto negativo? E adesso? La Trasparenza VS Ombra e la “questione negoziale”

La preparazione

Seguendo il classico schema che vede fronteggiarsi i “pro” e i “contro” qualcosa, anche il G20 di Roma ha visto da una parte i critici e, dall’altro, coloro che vedono nella kermesse dei potenti della terra un nuovo inizio: quello per un mondo un po’ più sostenibile. Ma al di là delle posizioni, spesso preconcette, e in attesa di vedere quali azioni verranno realmente implementate, c’è una domanda fondamentale da porsi: come arriviamo (im)preparati alla sfida climatica?

Le ultime da Glasgow

Dopo il clima (para)ottimistico veicolato dal G20 di Roma animato dal Presidente Draghi, i lavori della COP26 di Glasgow, 31 ottobre – 12 novembre 2021, sembravano ad un punto morto (molte dichiarazioni dei portavoce dei Governi Nazionali, ma disallineamento fra piani nazionali di riduzione delle emissioni inquinanti e contenimento dell’aumento di riscaldamento globale), quando da Glasgow è arrivata una notizia che potrebbe rimescolare le carte in tavola. Il 10 novembre, infatti, le dichiarazioni del Governo cinese hanno riacceso l’attenzione sul vertice: il capo dei negoziatori di Xi Jinping è uscito allo scoperto, annunciando una «Dichiarazione congiunta con gli Stati Uniti per il rafforzamento dell’azione climatica», che include impegni per la riduzione delle emissioni di metano, la protezione delle foreste e l’uscita graduale dal carbone. Dichiarazione corroborata da quella di John Kerry, nella quale l’inviato speciale del Presidente U.S.A. per il clima ha ribadito che l’obiettivo resta quello di contenere il riscaldamento globale entro il tetto di 1,5° in più rispetto all’era pre-industriale e che Biden e Xi vogliono lavorare insieme» su questo. Una svolta che, se dovesse essere confermata, prima, e tradotta in fatti, poi, sarebbe rivoluzionaria.

Il Climate transparency report e l’inadeguatezza delle attuali politiche

A ribadire – per l’ennesima volta, semmai ce ne fosse ancora bisogno – quanto è importante e necessario che i leaders dei più grandi Stati che immettono CO2 si facciano avanti con obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni più ambiziosi, arrivano i dati del Climate Transparency report.
Il Climate Transparency Report 2021 è stato sviluppato da esperti di 16 organizzazioni partner della maggior parte dei paesi del G20, e si basa su 100 indicatori per le misure di adattamento, la mitigazione e il finanziamento. Quest’anno il G20 (Roma, 30 e 31 ottobre) si è impegnato a presentare nuovi obiettivi climatici; quattro giorni prima della scadenza finale del 12 ottobre, 16 membri (tra cui Francia, Germania e Italia nell’ambito degli NDC europei) hanno consegnato i loro piani aggiornati.
NDC: “Contributi Nazionali Determinati” (National Determined Contribution): si tratta degli obiettivi climatici che le Nazioni si sono date, in maniera autonoma e volontaria, per contribuire a mantenere la crescita della temperatura globale.
Il report fa il punto della situazione sui piani nazionali per la riduzione delle emissioni presentati da alcuni Paesi. Ciò che emerge è la totale inadeguatezza di tali programmi a rispettare gli obiettivi di limitazione dell’innalzamento della temperatura sanciti dagli Accordi di Parigi sul Clima, fino al recente Fitfor55%, con il quale la Commissione UE ha proposto di avere come obiettivo quello di ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030.

I numeri parlano da soli

L’Italia – per esempio – “non ha una traiettoria in grado di permettere di mantenere il limite di 1,5°C. L’obiettivo nazionale è quello di ridurre le emissioni del 38% al di sotto dei livelli del 2005 entro il 2030; per rimanere sotto l’1,5 ̊ C dovrebbero scendere almeno 72% a livello nazionale”. Come a dire che siamo a poco più del 50% del percorso minimo. Uno dei problemi principali di casa nostra riguarda le fonti energetiche da usare nella, e per la transizione. Recentemente il ministro Cingolani ha sottolineato la necessità di proseguire le ricerche e le sperimentazioni sul nucleare di quarta generazione, suscitando un vivace dibattito dovuto alla persistenza, in parte dell’opinione pubblica, di ritrosie più o meno legittime, rispetto a questa fonte energetica, per non parlare della tradizionale riottosità ad ospitare pale eoliche o pannelli fotovoltaici nei propri paraggi (la c.d. Sindrome NIMBY).

E nel resto dell’Europa?

La Francia – dove Macron ha recentemente annunciato la ripresa del nucleare – “non è in linea con l’1,5° C e deve aumentare la sua riduzione delle emissioni del 40% se vuole centrare l’obiettivo del 2030”. Altri Paesi non sono messi meglio: “nel Regno Unito le energie rinnovabili stanno contribuendo a ridurre la dipendenza del Paese dai combustibili fossili, tuttavia la notevole produzione di gas naturale resta un problema”. Oltreoceano, negli USA – falcidiati dai disastri meteorologici e da una politica per anni ostinatamente contraria a qualsiasi accordo – è ritornata altissima, almeno a parole, l’attenzione alla riduzione delle emissioni inquinanti, come testimoniano le dichiarazioni del Presidente Biden e, più di recente, da Kerry, a proposito della citata intesa con la Cina: questa prospettiva, tuttavia, deve fare i conti con il tallone d’Achille legato all’’espansione delle infrastrutture petrolifere e del gas: a meno che non si fermi, “gli Stati Uniti sono a rischio di rimanere intrappolati in un’economia fossile e di beni bloccati ad alto costo”, si sottolinea nel report. Un’altra nota dolente evidenziata dal Report riguarda – più in generale – la razionalizzazione e la riduzione progressiva dei sussidi ambientalmente dannosi (incentivi in varie forme ad attività antropiche alimentate ancora da fonti energetiche fossili): è troppo lenta, ed ancora troppi sono i danari pubblici che li finanziano (“Tra il 2018 e il 2019, i membri del G20 hanno fornito 50,7 miliardi di dollari all’anno di finanze pubbliche per i combustibili fossili”).

È tutto negativo?

Eppure, qualcosa di buono è successo. Ad esempio, “la crescita dell’energia solare ed eolica tra i membri del G20, con nuovi record di capacità installata nel 2020”, cui fa da contraltare, tuttavia, la mancanza (in tutti i Paesi del G20, ad eccezione della Gran Bretagna) di strategie – né a breve, né a lungo termine, per raggiungere il 100% di rinnovabili nel settore energetico entro il 2050”.
“Tra il 2015 e il 2020, la quota di rinnovabili nel mix energetico del G20 è aumentata del 20%, raggiungendo il 28,6% della produzione di energia del G20 nel 2020 e si prevede che raggiungerà il 29,5% nel 2021. Dal 2015 al 2020, l’intensità di carbonio del settore energetico è diminuita del 4% in tutto il G20. Ma si prevede che il consumo di carbone aumenterà di quasi il 5% nel 2021, una crescita guidata da Cina (con il 61% della crescita), Usa (18%) e India (17%)”.
In ogni caso, non può non essere “contabilizzato” il calo delle emissioni inquinanti prodottosi con il dilagare della pandemia da Covid19 nel 2020, grazie alle restrizioni imposte dai governi per arginare i contagi: “le emissioni di CO2 legate all’energia sono diminuite del 6%. Tuttavia, nel 2021, le emissioni di CO2 dovrebbero rimbalzare del 4% in tutto il G20, con Argentina, Cina, India e Indonesia che si prevede supereranno i loro livelli di emissioni del 2019”.

E adesso? La Trasparenza VS l’Ombra e la “questione negoziale”

Si è fatto cenno al fatto che, mentre si susseguivano le dichiarazioni dei portavoce dei governi nazionali, durante la COP26 c’è stato un grande lavoro dietro le quinte (“nell’ombra”) da parte degli emissari di Usa e Cina. Nella notte fra il 10 e l’11 novembre, infatti, è stata diffusa la bozza di documento sulla trasparenza, cioè sulle regole comuni che, secondo l’Accordo di Parigi, gli Stati devono osservare per comunicare i loro progressi nella decarbonizzazione. Sono tre i temi chiave oggetto del lavorio dei negoziatori:
  1. la trasparenza, per l’appunto, innanzitutto: al momento non esiste un format comune per gli NDC o per verificare che i Paesi fanno ciò che promettono;
  2. la finanza climatica (l’obiettivo di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 non è stato ancora raggiunto e alcuni Paesi in via di sviluppo hanno sottolineato che i finanziamenti non possono essere sotto forma di prestiti);
  3. le regole per un mercato globale del carbonio (lo scopo è quello di sostenere la compensazione delle emissioni e raggiungere l’obbiettivo Net Zero).
La bozza della dichiarazione finale però appare ancora nebulosa su alcuni aspetti cruciali, anche tenuto conto del fatto che si tratta, per l’appunto, di una bozza. Si tratta, tuttavia, forse – ed in considerazione e a causa dello schema, cui si è fatto cenno all’inizio di questo contributo – di nodi da sciogliere al riparo da occhi e orecchie (ideologiche/ideologizzate) indiscrete e nel contesto di chissà quali accordi di “beneficio reciproco”. Se da una parte il testo è dettagliato sul tema della mitigazione (invito ad accelerare l’uscita graduale dal carbone e dai sussidi dannosi), è meno chiaro sugli aiuti ai Paesi che già soffrono per gli effetti della crisi climatica.

Va bene l’intesa ambientale ma serve quella economica

Tuttavia, entrambe le parti, come ha spiegato la Cina, “riconoscono che vi è un gap fra gli sforzi attuali e gli obiettivi dell’Accordo di Parigi” e per questo l’iniziativa bilaterale prevede regole «concrete e pragmatiche». Per questi motivi – probabilmente – per trovare un’intesa sul clima, prodromica ad una implementazione rapida ed efficace, occorrerà lavorare prima sulla questione negoziale in senso lato: non solo quella relativa all’ambiente, ma anche su quelle economiche che ne costituiscono il fondamento. Del resto, lo sappiamo tutti, e non si può far finta di nascondersi dietro un dito: fino a che non ci sarà un’intesa economica (e sociale) alle spalle, l’accordo ambientale stenterà a realizzarsi. È l’altro lato della medaglia delle molteplici sostenibilità.
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