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Sostenibilità e moda: un binomio possibile?

Dal Fashion Pact alla nuova norma UNI EN ISO 14026:2018: si moltiplicano a livello globale le iniziative e i progetti volti a rendere l’attenzione alla sostenibilità un elemento strutturale dell’Industria della Moda
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Sostenibilità e moda: un binomio possibile?
L’Industria della Moda diventa sostenibile: la firma del Fashion Pact da parte di 32 grandi sigle dell’Industria della Moda ad agosto scorso è solo l’ultimo segno che evidenzia come l’intera filiera della moda si stia ri-strutturando in senso sostenibile. Precorritrice dei tempi per natura, la Moda ha già incamerato il vento del cambiamento e compreso che la sostenibilità vera si realizza solo coinvolgendo (e istruendo) tutti i soggetti coinvolti. Ma come si colloca in questo contesto la nuova norma UNI EN ISO 14026:2018? La sostenibilità (d’impresa) La sostenibilità nell’industria della Moda L’insostenibilità del settore tessile Prove tecniche di sostenibilità Il fashion Pact e gli strumenti per farlo funzionare Comunicare la sostenibilità ai propri consumatori Come misurare il livello di sostenibilità di un’impresa: la nuova norma UNI EN ISO 14026:2018 e il ruolo di apripista delle case di Moda

La sostenibilità (d’impresa)

Prima di parlare della sostenibilità nell’ambito dell’Industria della Moda, è opportuno riassumere che cosa vuol dire per un’impresa essere sostenibile. Cos’è, innanzitutto, lo sviluppo sostenibile? Ne è passato di tempo, da quando – era il 1987 – il concetto di sviluppo sostenibile fu coniato nel “rapporto Brundtland” (conosciuto anche come “Our Common Future”). Allora la Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (WCED) utilizzò queste parole: «lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri». A distanza di più di trent’anni, questo concetto, pur essendo sempre valido, si è arricchito. Se l’ambiente in passato era visto più come un ostacolo allo sviluppo socio-economico, oggi è “soltanto” uno dei tre punti di vista attraverso il quale considerare, analizzare e valutare non “la sostenibilità”, ma “le molteplici sostenibilità”, fra le quali spiccano quella ambientale, quella sociale e quella economica: tre aspetti imprescindibili e interconnessi, e non più antitetici. In definitiva, un’impresa può dirsi sostenibile quando coniuga queste tre diverse tipologie di sostenibilità. Cosa fare per essere sostenibili? Il management dovrebbe assumere scelte in grado di:
  • abbassare l’impatto ambientale delle proprie attività produttive;
  • contenere i consumi;
  • progettare e realizzare oggetti che – per le materie prime usate, le modalità con cui sono stati lavorati, il comportamento a fine vita – diminuiscano l’impatto sull’ambiente.

Cosa significa essere sostenibile per un’azienda tessile?

Per l’industria della Moda questo significa impegnarsi ad eliminare determinate sostanze pericolose, o a limitarne la concentrazione e l’utilizzo in attesa di alternative tecnicamente valide; a migliorare i processi produttivi esistenti; a perseguire l’efficienza energetica (riduzione dei consumi energetici), e il contenimento del consumo di risorse idriche necessarie ai processi di lavorazione del prodotto e di depurazione dei reflui.
Il concetto di impresa sostenibile nel tempo ha assunto una serie di aspetti multi sfaccettati e concreti: oggi il concetto di sostenibilità viene esteso anche al rispetto della salute dei lavoratori e dei consumatori, al rispetto dei diritti umani, alla razionalizzazione dei processi creativi e produttivi e allo stimolo per innovazione e ricerca.
Per affrontare in modo compiuto il tema della sostenibilità in un’impresa bisogna considerare gli interessi di tutti gli stakeholder, che compartecipano alla ideazione, produzione, fornitura, vendita ed utilizzo di un prodotto, ovvero fino al consumatore finale ed alle comunità locali.

La sostenibilità nell’industria della Moda

Nell’industria della moda la consapevolezza circa l’importanza della sostenibilità dovrebbe essere un processo quasi naturale, forse ancora più che per altre industrie, proprio perché sono connaturati a questo settore:
  1. la valorizzazione della creatività e dell’innovazione in ogni fase del processo produttivo (si pensi alla produzione di capi tecnici, non più solo riservati agli sportivi, prodotti con filati sempre innovativi e performanti);
  2. l’utilizzo degli strumenti di comunicazione più attuali (basti pensare a come la moda ha saputo corteggiare gli “influencer”, nuove figure che nel mondo dei social sono in grado di raggiungere e influenzare i consumi di vasti pubblici);
  3. la necessità di doversi confrontare da sempre con mercati locali ed internazionali con precise caratteristiche, usi, costumi e sensibilità che non vanno assolutamente offesi ma al contrario rispettati e valorizzati.

L’insostenibilità del settore tessile

Il Tessile-Abbigliamento (TA) costituisce un settore di grande rilievo economico per l’Italia; si tratta infatti del terzo settore manifatturiero nazionale, che conta ad oggi quasi 450.000 addetti e più di 50.000 aziende attive sul territorio, rappresentando circa il 10% del Valore Aggiunto del Manifatturiero Italiano. Ultimamente, il settore tessile è oggetto di forte attenzione riguardo la sostenibilità delle diverse fasi che costituiscono la sua filiera. Le produzioni tessili sono spesso caratterizzate da processi notevolmente impattanti dal punto di vista ambientale, soprattutto in termini di:
  • consumo di risorse naturali (in primo luogo acqua) e di energia elettrica;
  • utilizzo di prodotti chimici (in particolare, nei processi ad umido, quali tintura, stampa e finissaggio).

La sesta attività produttiva che più incide sulle emissioni di gas serra

A livello globale, il settore tessile rappresenta la sesta attività produttiva che più incide sulle emissioni di gas serra (circa il 10% delle emissioni globali, per un valore pari a 3,4 milioni di tonnellate nel 2011) con consumi di:
  • 1,074 milioni di kWh di elettricità,
  • 132 milioni di tonnellate di carbone,
  • 6-9 miliardi di litri di acqua,
  • 6 milioni di tonnellate di prodotti chimici.
Un ulteriore elemento di preoccupazione è costituito dal fatto che, spesso, parte delle attività del ciclo produttivo hanno luogo in Paesi meno avanzati dove, oltre alla tutela dell’ambiente, a essere scarsamente considerata è anche l’età e la salute e sicurezza dei lavoratori impiegati per la produzione. Questo punto in particolare ha suscitato forti perplessità – quando non condanne esplicite – presso larga parte dell’opinione pubblica.

Prove tecniche di sostenibilità e moda: alcuni esempi

Da un po’ di tempo a questa parte, facendo fede alla sua “vocazione anticipatrice di tendenze”, la Moda nel suo complesso ha cominciato a muoversi nella direzione auspicata. Ci sono, infatti, alcune iniziative, anche di forte impatto economico, attuate da singole aziende internazionali del Fashion volte a intraprendere un cammino di sostenibilità e di economia circolare, a cominciare a voltare pagina e ridurre considerevolmente l’impatto ambientale dei processi produttivi. Associare i concetti di sostenibilità e moda sembrerebbe dunque possibile attraverso il recupero. Ad esempio, Prada si è data un obiettivo assai ambizioso: trasformare in nylon Econyl tutti i capi e gli accessori che produce entro la fine del 2021. Il famoso marchio ha lanciato Re-Nylon, un progetto per produrre le sue borse più famose usando l’Econyl, un filato in nylon rigenerato realizzato con rifiuti di plastica recuperati negli oceani, come reti da pesca, o destinati alle discariche come scarti di fibre tessili e vecchi tappeti, che vengono rigenerati. Attraverso un particolare processo, questo filato può essere riciclato all’infinito: un vero e proprio esempio di economia circolare.

La rigenerazione di fibre tessili e i risultati ambientali

Tuttavia, al posto delle volontarie ed autonome iniziative della singola azienda del settore fashion, e in considerazione degli impatti globali della Moda, sia in termini di fatturato che di impatto ambientale, è necessario instaurare delle collaborazioni di più ampio respiro: una maggiore quantità di attori coinvolti, che possa lavorare su progetti di lunga gittata, con la collaborazione dei livelli istituzionali più alti: il Fashion Pact.
Secondo quanto comunicato, ogni 10.000 tonnellate di Econyl prodotto si risparmiano 70.000 barili di petrolio, riducendo le emissioni di CO2 di 57.100 tonnellate. Una percentuale del ricavato dalla vendita della collezione ristretta (o capsule collection) Prada Re-Nylon sarà devoluta peraltro a favore di progetti per la sostenibilità ambientale.

Il Fashion Pact: obiettivi 

Lo scorso agosto, 32 aziende internazionali appartenenti ai settori lusso, fast fashion, tessile e distribuzione, hanno siglato il «Fashion Pact» per la difesa dell’ambiente, condividendo una serie di obiettivi che ruotano attorno a tre temi chiave:
  • arrestare il riscaldamento globale;
  • ripristinare la biodiversità;
  • proteggere gli oceani.
Il patto sancisce la volontà di fare uno sforzo comune e di aumentare la collaborazione tra aziende private e stati nazionali. L’alleanza è stata voluta dal presidente francese Macron, che ha affidato a François-Henri Pinault (Kering) il compito di riunire i big player del settore. Molti gli italiani firmatari, da Armani a Zegna passando per Prada e Ferragamo. L’annuncio dell’iniziativa è arrivato alla vigilia del G7 svoltosi appena qualche giorno dopo, e la delegazione dei rappresentanti delle 32 aziende è stata ricevuta dal presidente francese.

Tre aspetti importanti per l’applicazione concreta dell’accordo

L’applicazione concreta del Fashion Pact non sarà una passeggiata, per almeno tre ordini di ragioni:
  1. la sostenibilità “non è gratis, ma ha un costo economico, e ciascuna impresa deve esserne ben conscia, così come deve esserne ben conscio il consumatore finale, che va istruito ed educato su cosa comporta, per un qualsiasi processo produttivo, veder ridotto o azzerato il suo impatto sull’ambiente, perché, per forza e in misure differenti, egli stesso sarà parte dell’iter di ripartizione dei costi. Detto in altri termini, aziende e consumatori devono conoscere come si arriva alla sostituzione di materiali, allo sviluppo e all’implementazione di processi produttivi più compatibili con l’ambiente, e del perché questi incidono in maniera rilevante sulla marginalità di un prodotto. Ovviamente, starà poi alla singola impresa decidere quale politica di pricing adottare e se assorbire in toto o in parte questi costi maggiori;
  2. occorre creare, incentivare e mantenere forme di collaborazione sempre più stretta tra tutti gli attori della filiera (un prodotto, infatti, nasce dalla capacità e dal mix di competenze di tutti gli attori coinvolti nel processo, da quelli creativi a quelli industriali e produttivi);
  3. manca ancora l’armonizzazione e il rispetto delle regole, degli standard e dei capitolati di acquisto a livello globale, in assenza dei quali ogni azione rischia fortemente di rimanere velleitaria. Da un lato, infatti, diventa inutile fare uno sforzo collettivo in questa parte del mondo se poi le best practices di tutela ambientale vengono sistematicamente ignorate in altre aree geografiche di produzione, dove si privilegia ancora un vantaggio competitivo di costo e non di sostenibilità. Dall’altro, è un preciso compito dei committenti occidentali controllare e pretendere il rispetto degli standard: la mancanza di assunzione di responsabilità da parte dei committenti può generare un impatto dannoso per le aziende industriali virtuose, che si troverebbero a competere ad armi impari.

L’approccio etico e sostenibile

Una volta che l’impatto ambientale di un bene è stato concretamente ridotto, questo traguardo deve essere comunicato: occorre raggiungere i propri target con messaggi efficaci. Fra i primi richiami alla sostenibilità e a un approccio etico al fashion vi sono quelli dei marchi inglesi Vivienne Westwood o Kathrine Hamnett. Dopo arrivano le prime campagne legate a una moda sostenibile, che risalgono a circa 20 anni fa: vi sono state case di moda e stilisti che hanno fatto da apripista, utilizzando il basso impatto ambientale dei propri prodotti come leva di marketing efficace presso un pubblico sensibile ai temi della sostenibilità e disposto per questo a preferire i loro prodotti (di solito più cari) a scapito di altri. A volte la sostenibilità è stata soltanto millantata; dietro la patina verde, infatti, spesso in passato è stata nascosta una realtà ben diversa. moda e sostenibilità abiti cotone organico appesi

Moda green o greenwashing?

Morale, la comunicazione si risolveva in un mero “greenwashing” che poco aveva a che fare con la reale e concreta messa in opera di iniziative volte ad abbassare il più possibile l’impatto ambientale dei processi produttivi. Le cose oggi per fortuna stanno rapidamente cambiando: non solo sul mercato vi sono moltissimi beni e servizi che possono vantare un alto livello di sostenibilità certificata, ma gli stessi consumatori sono più smaliziati, si informano di più ed esercitano con più consapevolezza le proprie scelte. Per aiutare questo processo, e sgombrare il campo dalle residue ipotesi di pubblicità ingannevole, è necessario assoggettare la comunicazione dell’impronta ambientale di un prodotto (o di un processo) a regole precise e condivise a livello internazionale. L’obiettivo è quello di fornire al consumatore informazioni chiare, certificate e comparabili al fine di scegliere per i suoi acquisti, non quindi il prodotto cui si accompagna la comunicazione ambientale più accattivante. Ma quello con l’impatto ambientale realmente più basso. L’impatto ambientale si riduce non solo rispetto al processo produttivo, ma in tutto il ciclo di vita del prodotto, includendo tutto ciò che avviene a livello di selezione delle materie prime, quindi prima di produrre il bene, e ciò che accade anche dopo la cessazione del suo utilizzo.

Come misurare il livello di sostenibilità di un’impresa? Con i metodi Pef e Oef

Per misurare il proprio impatto ambientale, le aziende, possono già utilizzare metodologie di analisi come:
  • il Pef (product environmental footprint) e
  • l’Oef (organization environmental footprint)
Entrambi i metodi sono raccomandati dall’Unione europea (2013/179/EU). Si tratta di metodologie che possono essere adottate dalle imprese su base volontaria. In particolare, Pef e Oef, per il tramite dell’analisi di 16 indicatori ambientali:
  • sono in grado di fornire una fotografia aggiornata dell’impatto che i processi e i prodotti dell’azienda, lungo tutto il loro ciclo di vita, hanno sull’ambiente,
  • e costituiscono un punto di partenza per il miglioramento delle performance.

Il nuovo standard per la comunicazione delle informazioni sull’impronta ambientale: la nuova norma UNI EN ISO 14026:2018 

A dicembre 2018 è entrato in vigore il nuovo standard per la comunicazione delle informazioni sull’impronta ambientale (footprint). Si tratta della norma UNI EN ISO 14026:2018 sull’Etichettatura e dichiarazioni ambientali – Principî, requisiti e linee guida per la comunicazione delle informazioni sull’impronta ambientale (footprint). Un ulteriore strumento, che costituisce una piccola grande rivoluzione, che sancisce il diritto di consumatori e imprese a ricevere informazioni sull’impronta ambientale dei prodotti che siano chiare, non fuorvianti, facilmente accessibili e di qualità. Un modo di concepire la comunicazione ambientale lontano anni luce dal c.d. “vecchio” ed abusato greenwashing… La nuova norma non solo detta i principî, i requisiti e le linee guida per le comunicazioni dell’impronta dei prodotti che hanno influenza sull’ambiente, ma fornisce anche requisiti e linee guida per i programmi di comunicazione dell’impronta ambientale (footprint), oltre ai requisiti per le procedure di verifica. Il campo di applicazione è strettamente quello ambientale (sono escluse per esempio le impronte che trattano problematiche sociali o economiche, che pure abbiamo visto far parte delle sostenibilità).

Sostenibilità e moda: la portata della norma UNI EN ISO 14026:2018

Nonostante ciò, la portata della norma resta piuttosto vasta considerati alcuni fattori:
  1. la norma fornisce i concetti base sia rispetto alla comunicazione dell’impronta ambientale dei prodotti nei contesti B2B (business-to-business) sia B2C (business-to-consumer) in termini di principi, requisiti e linee guida per le comunicazioni dell’impronta dei prodotti che hanno influenza sull’ambiente;
  2. i potenziali impatti ambientali sono da considerarsi anche per la fase di produzione, utilizzo e fine ciclo del prodotto;
  3. viene sancito il diritto dei consumatori e delle altre organizzazioni che entrano a contatto con un certo prodotto ad avere informazioni chiare, non fuorvianti, facilmente accessibili, di qualità;
  4. per il nostro Paese, grande esportatore internazionale, si tratta di un’ulteriore possibilità per sostenere la competitività dei prodotti made in Italy sui mercati nazionali e internazionali. La norma potrebbe essere lo strumento ideale e indice di qualità e sostenibilità per un’azienda che ha calcolato i footprint ambientali e che intende costruire una comunicazione efficace;
  5. la norma si pone l’obiettivo di semplificare, armonizzare e, non da ultimo, rendere comparabili le comunicazioni e le dichiarazioni relative ai footprint, utilizzando efficacemente l’approccio multicriterio per sviluppare vere e proprie etichette ambientali su prodotti; si tratta di un’evoluzione rispetto all’usuale carbon footprint (che esprime in CO2 equivalente il totale delle emissioni di gas ad effetto serra associate direttamente o indirettamente ad un prodotto).

Comunicare la sostenibilità ai propri consumatori

È troppo presto per tracciare un primo bilancio sugli effetti prodotti da questa norma sulla comunicazione ambientale. Tuttavia, si può affermare che per certi versi si tratta di una norma ambiziosa, che si pone l’obiettivo di rivoluzionare dalle fondamenta il settore della comunicazione ambientale, scardinando un meccanismo composto da segretezza dei brevetti, comunicazione non sempre limpida verso terze parti e consumatori, e confusione terminologica. E quale migliore occasione di cominciare ad usare questo strumento in un settore come quello della Moda, per sua intrinseca natura legata al cambiamento, specie quando – si sa – questo cambiamento consiste in un’evoluzione?
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