Rapporto IPCC e urgenze sul cambiamento climatico
L’ultimo Special Report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, il Rapporto IPCC, evidenzia l’urgenza di dare priorità in maniera tempestiva ad azioni coordinate e ambiziose. Servono per affrontare cambiamenti persistenti e senza precedenti che riguardano l’oceano e la criosfera. Il report si concentra su un cambiamento climatico e di territorio, studiando le conseguenze del riscaldamento su agricoltura e foreste.
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Il rapporto IPCC per adattarsi al cambiamento
Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico ha diffuso un nuovo rapporto speciale sul clima, presentato nei mesi scorsi a Ginevra.
| Chi ha realizzato il report |
| Il rapporto – il terzo pubblicato nell’ultimo anno dall’IPCC – è il frutto del lavoro compiuto da 107 scienziati. Costoro hanno considerato 6.981 pubblicazioni e 31.176 commenti provenienti da revisori e governi di 80 paesi. Si concentra sul mare e sulle aree ghiacciate del pianeta. |
| Cos’è l’IPCC? Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC) è il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici. |
| Da chi è stato istituito? L’IPCC è stato istituito nel 1988 dalla World Meteorological Organization (WMO) e dall’United Nations Environment Program (UNEP). Serve a fornire ai governi di tutto il mondo una chiara visione scientifica dello stato attuale delle conoscenze sul cambiamento climatico e sui suoi potenziali impatti ambientali e socio-economici, allo scopo di studiare il riscaldamento globale. Gli esperti dell’IPCC elaborano le informazioni più recenti provenienti da diverse discipline, dalle scienze fisiche agli impatti del clima, per arrivare fino alle soluzioni climatiche. Sono migliaia anche i revisori che aiutano gli autori a perfezionare le bozze. Il risultato più importante di ciascun rapporto è il “sommario per i responsabili politici”, concordato riga per riga dai 195 paesi membri dell’IPCC per apporre il sigillo di approvazione delle autorità governative. |
Il messaggio più importante del voluminoso rapporto è che oceani e criosfera stanno già cambiando sotto l’effetto del riscaldamento globale e che continueranno a mutare in modi in buona parte ancora imprevedibili: da qui la necessità di adattarsi alle mutate condizioni, dal momento che alcuni cambiamenti – secondo il report – non possono essere fermati.
Serve una politica che sappia adattarsi ai cambiamenti climatici: una politica resiliente. Il rapporto, in particolare, è stato fondamentale per il negoziato sul clima e l’ambiente che si è tenuto a Nuova Delhi a settembre e lo sarà certamente per la Conferenza della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che avrà luogo a Santiago del Cile a dicembre. Vediamo, in sintesi, i punti centrali della Relazione.
Persone, terra e clima in un mondo che si sta (surri)scaldando
La prima parte del report fornisce una serie di informazioni sullo stato attuale del pianeta, con particolare riferimento agli oceani ed alla criosfera.
| Criosfera: secondo il report, la criosfera deve essere intesa come l’insieme delle aree del pianeta in cui l’acqua ha forma solida, compresi i mari, i laghi, i fiumi, superfici innevate, ghiacciai, calotte polari e il suolo ghiacciato, che include il permafrost. |
I cambiamenti climatici già esistono e stanno avendo impatti rilevanti. Questo il messaggio fondamentale del Rapporto, che evidenzia come il costante riscaldamento dell’oceano stia causando la perdita di ghiaccio marino artico e di ossigeno, maggiore acidificazione, ondate di calore marine sempre più frequenti e “un indebolimento della circolazione meridionale dell’Atlantico”.
Secondo gli scienziati in assenza di misure per la riduzione delle emissioni, questi cambiamenti procederanno, nella seconda metà del secolo, a ritmo e intensità sempre più elevati. In assenza di politiche e di concrete azioni per la riduzione delle emissioni di gas serra, si prevede, infatti, che rispetto al secolo scorso, la frequenza delle ondate di calore marine aumenterà di circa 50 volte entro il 2081-2100, con aumenti maggiori per l’oceano artico e l’oceano tropicale.
Le conseguenze più importanti
Partiamo dalla diminuzione dell’estensione del ghiaccio marino artico, visibile in tutte le stagioni, con trend più forte a settembre (circa 13% in meno per decennio rispetto alla media 1981-2010. Circa la metà della perdita estiva di ghiaccio è attribuita all’aumento di concentrazione di gas serra in atmosfera). Altre conseguenze facilmente visibili sono:
- Minore disponibilità di risorse idriche (in termini di qualità, utilizzo sicurezza alimentare);
- Calamità naturali (inondazioni, valanghe, frane e destabilizzazione del suolo), che avranno impatti negativi anche su infrastrutture, beni culturali, turistici e ricreativi;
- Aumento dei contaminanti (soprattutto mercurio) rilasciati dallo scioglimento dei ghiacciai e del permafrost;
- Riduzione della stabilità dei pendii di alta montagna;
- Modifica del deflusso dei fiumi;
- Compromissione del turismo in alta montagna. In caso di riscaldamento superiore ai 2°C si renderebbe vana anche l’adozione di tecnologie per l’innevamento artificiale, con ripercussioni economiche per le comunità montane;
- Riscaldamento, perdita di ossigeno, acidificazione e riduzione del flusso di materiale organico dalla superficie ai sedimenti. Questo aggraverà la bio-erosione e la dissoluzione dei componenti non-vivi delle comunità coralline in acque fredde.
Resilienza parola d’ordine del Rapporto IPCC
Secondo il Rapporto IPCC, l’unico modo per gestire i rischi e mitigare le conseguenze, sopra sintetizzate, consiste nel gestire meglio e in ottica preventiva il territorio, l’ambiente e le sue interazioni (anche di tipo economico e sociale).
| Come gestire il rischio ambientale? Con un approccio sistematico |
| Per raggiungere un equilibrio fra le sostenibilità ambientale, economica e sociale, occorre dunque cambiare paradigma, e adottare un approccio sistematico alla gestione ambientale, per proteggere non solo l’ambiente, ma anche per rispondere al cambiamento delle condizioni ambientali in equilibrio con le esigenze del contesto socio-economico. |
Solo in questo modo si può contribuire (non: risolvere tout court) ad affrontare i cambiamenti climatici. Naturalmente, proprio perché questo sistema non è mai stato adottato prima, oggi si può e si deve prevenire, ma si deve anche fare i conti con l’adattamento a quanto di irreversibile è già accaduto. Per questo serve, come s’è fatto cenno, una politica che sappia adattarsi ai cambiamenti climatici: una politica resiliente.
| La resilienza |
| Il concetto di resilienza richiama la capacità di saper sopravvivere ad eventi imprevisti e minacce; deve essere intesa come l’abilità di un’organizzazione di anticipare e prepararsi per rispondere e adattarsi ai cambiamenti improvvisi e alle situazioni di crisi, prosperando. Un’organizzazione resiliente è darwininana, nel senso che si adatta ai cambiamenti dell’ambiente per rimanere forte nel lungo periodo, ed impara dalle proprie esperienze e da quelle degli altri per superare le sfide del tempo in maniera proattiva. Un’attenzione generale alla sostenibilità, unita ad una azione tempestiva, offre le migliori opportunità per affrontare i cambiamenti climatici. Secondo il report, strategie “resilienti” includono una bassa crescita della popolazione, una riduzione delle disuguaglianze, una migliore alimentazione e una riduzione degli sprechi alimentari. |
| Cosa vuol dire essere un’organizzazione resiliente? |
| I principî base della resilienza possono rendere più forti le organizzazioni in un mondo sempre più complesso e in un mercato in continuo cambiamento. La resilienza viene definita come la capacità di un’organizzazione di prosperare negli anni in un mondo dinamico e interconnesso. Un’organizzazione resiliente: – è adattabile, agile, forte e competitiva; sa sfruttare l’esperienza passata e cogliere le opportunità per superare le sfide del tempo; – adotta le best practices per raggiungere continui miglioramenti del business, integrando competenze e capacità in tutti i suoi aspetti. |
| Quali sono i requisiti di un’organizzazione resiliente? |
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| Quali sono i benefici conseguiti da un’organizzazione resiliente? |
| I benefici che scaturiscono dal raggiungimento di una condizione di resilienza sono principalmente tre: 1. l’adattabilità strategica, 2. l’agilità del management e 3. una forte governance. |
Le concrete azioni (a breve e a lungo termine)
Il rapporto ci dice chiaramente che gli impegni degli Stati per ridurre le proprie emissioni di gas serra non sono al momento in linea con l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C. Questo anche a causa di una serie di intrinseche difficoltà. Limitare il riscaldamento globale a 1,5° C richiede una forte riduzione delle emissioni di gas serra in tutti i settori della società e dell’economia. Settori fortemente interdipendenti, che occorre gestire in modo coordinato e progressivo: generare cambiamenti in uno di loro può avere ripercussioni su altri, che devono essere opportunamente tenuti sotto controllo.
Il breve termine
Nel Report si dice espressamente che occorre partire dalle azioni a breve termine che, sulla base delle conoscenze esistenti, sappiano affrontare la desertificazione, il degrado del suolo e la sicurezza alimentare. Come? A titolo esemplificativo, e non esaustivo, il report cita:
- le azioni per “costruire” nuove capacità (non solo istituzionali, ma anche individuali, cioè sociali);
- accelerare il trasferimento (e la condivisione…) delle conoscenze;
- migliorare il trasferimento e l’implementazione della tecnologia,
- abilitare meccanismi finanziari virtuosi;
- attuare sistemi di allerta predittivi e immediati;
- implementare la gestione dei rischi.
Proprio partendo da quest’ultimo aspetto, occorre combinare le azioni di breve periodo ben sapendo che occorre sostenere, nel contempo, risposte a più lungo termine che consentano l’adattamento e la mitigazione dei cambiamenti climatici. Le azioni a breve termine, detto in altri termini, devono necessariamente essere accompagnate da una visione del futuro, di sviluppo sostenibile.
Lo sviluppo sostenibile e i tre pilastri della sostenibilità
Cos’è lo sviluppo sostenibile? Ne è passato di tempo, da quando – era il 1987 – il concetto di sviluppo sostenibile fu coniato nel “rapporto Brundtland” (conosciuto anche come “Our Common Future”). Allora la Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (WCED) utilizzò queste parole: “lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”.
A distanza di più di trent’anni, questo concetto, pur essendo sempre valido, si è arricchito: se l’ambiente in passato era visto più come un ostacolo allo sviluppo socio-economico, oggi è “soltanto” uno dei tre punti di vista attraverso il quale considerare, analizzare e valutare non “la sostenibilità”, ma “le molteplici sostenibilità”, fra le quali spiccano quella ambientale, quella sociale e quella economica: tre aspetti imprescindibili e interconnessi, e non più antitetici. L’impatto su uno di questi aspetti provoca inevitabilmente delle ripercussioni sugli altri due (e non solo).
Gli impatti a catena della sostenibilità
Ogni aspetto ambientale “elemento delle attività o dei prodotti o dei servizi di un’organizzazione che interagisce o può interagire con l’ambiente”, può causare un impatto ambientale. Ogni impatto ambientale, a sua volta, può avere un impatto sugli altri due elementi della sostenibilità.
In “termini aziendali”, questo significa che occorre, analizzare molto attentamente gli aspetti ambientali della propria azienda. Per valutare i rischi intrinseci e le opportunità connesse. Rischi che, in caso di impatto negativo, possono avere – e normalmente hanno – gravi conseguenze sul business. Per questi motivi, l’identificazione e la valutazione degli aspetti ambientali significativi, soprattutto nella fase di pianificazione, è diventata sempre più fondamentale per le aziende, fino a diventare indispensabile per la stessa business continuity societaria.
In “termini sociali”, questo vuol dire – sia pure in forme diverse – più o meno la stessa cosa: che occorre identificare, valutare e gestire gli aspetti ambientali significativi, in modo da continuare la stessa nostra (“continuity”) sopravvivenza: occorre cambiare stile di vita, e stile di politica. Non basta l’annuncio di un nuovo green new deal.
Il decreto clima del governo Conte
Con il recente decreto clima, infatti, il Governo si prefigge di realizzare una serie di “misure positive, concrete, destinate a coinvolgere amministrazioni a più livelli, esperti e cittadini, puntando a realizzare [alcune delle] finalità indicate dall’attuale programma di governo […] realizzare un Green New Deal, che comporti un radicale cambio di paradigma culturale e porti a inserire la protezione dell’ambiente tra i principi fondamentali del nostro sistema costituzionale”. Ma allo stato attuale, in attesa che venga convertito in legge, il decreto contiene molti propositi, che necessitano di essere attuati tramite i famosi decreti attuativi.


