Energie rinnovabili

Manovra d’estate: il settore delle energie rinnovabili sotto tiro

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Secondo gli operatori del settore delle energie rinnovabili, la "Robin tax“ penalizza uno dei pochi settori industriali che, anche nell’attuale difficile congiuntura, continua ad investire nel nostro Paese, e, a fronte di un modesto beneficio sui conti pubblici, mette a rischio molti investimenti già effettuati, finalizzati allo sviluppo delle infrastrutture, all’ammodernamento delle centrali elettriche e, soprattutto, alla crescita della produzione da fonti rinnovabili.

Nella quotidiana querelle che nelle ultime settimane coinvolge la politica, in generale, e più in particolare il settore delle fonti rinnovabili di energia, è su quest’ultimo che il Governo sembra voler scaricare parte del costo della crisi economico-finanziaria-sociale. Crisi che, se la politica non ha causato, ha però di sicuro colpevolmente finto di non vedere, prima, e velleitariamente cercato di (non) risolvere, dopo, quando è arrivato il momento in cui, nonostante tutto, era diventato impossibile negare l’evidenza. Solo che, come si vedrà, purtroppo nel nostro caso neanche le intenzioni dei politicanti sono perfette ma, al contrario, confusionarie, figlie di quel modo di intendere e fare politica nel nostro paese: all’insegna della perenne emergenza e della totale mancanza di una programmazione seria, autorevole, lungimirante.

La dell’originaria Robin tax e le modifiche alla Robin tax contenute nel D.L. n. 138/2011 La “Robin Tax” – introdotta dal Governo come misura di “perequazione tributaria” nel 2008 – colpiva, con un’addizionale del 6,5% all’I.R.E.S., l’imposta sul reddito delle società, i soggetti che operavano in determinati settori (ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi; raffinazione di petrolio, produzione o commercializzazione di benzine, petroli, gasoli per usi vari, oli lubrificanti e residuati, gas di petrolio liquefatto e gas naturale; produzione o commercializzazione di energia elettrica, ad eccezione di quella prodotta mediante l’impiego prevalente di biomasse e di fonte solare-fotovoltaica o eolica) con ricavi superiori ai 25 milioni di euro.

La era allora collegata al riassorbimento degli extra margini che si riteneva che le imprese energetiche, a seguito dell’impennata del prezzo del petrolio, avessero conseguito attraverso la vendita degli stock di materia prima comprati a basso prezzo: il meccanismo, sulla base del differenziale fra prezzo di acquisto e prezzo di vendita, avrebbe obbligato le imprese a far emergere tale plusvalenza.

In definitiva, la Robin tax aveva lo scopo, per l’appunto, di perequazione tributaria, in dipendenza dell’andamento dell’economia e dell’impatto sociale che l’allora impennata dei combustibili fossili, successivamente per lo più riassorbitasi, aveva provocato.

La seconda, necessitata manovra dell’estate 2011 (D.L. n. 138/2011), ne ha contemporaneamente:

– ridotto la soglia di imposizione (da 25 a 10 milioni di euro);

– aumentato l’aliquota (dal 6,5% al 10%);

– esteso l’ambito di applicazione alla trasmissione, al dispacciamento e alla distribuzione dell’energia elettrica, oltre che al trasporto del gas naturale, eliminando l’esenzione prevista per la produzione di energia elettrica da biomasse, sole e vento e confermando il divieto di traslazione dell’onere sui prezzi/tariffe al consumo la cui vigilanza è posta in capo all’A.E.E.G.

Nell’arco degli ultimi mesi, il settore delle rinnovabili è stato oggetto di una copiosa produzione legislativo-amministrativa, non sempre all’insegna della coerente programmazione.

Dopo il varo del “Piano di azione nazionale per le energie rinnovabili”, l’ennesima sanatoria (prevista nell’agosto del 2010 per gli impianti realizzati con denuncia di inizio attività, in ottemperanza a disposizioni regionali successivamente dichiarate incostituzionali), le linee guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, l’entrata in vigore del c.d. “terzo conto energia” e il recepimento della direttiva 2009/28/CE, con il quarto conto energia del maggio 2011 il Governo è intervenuto, in relazione alla fonte fotovoltaica, a stravolgere l’assetto economico-normativo (si veda in proposito l’articolo “Le conseguenze del “quarto conto energia”).

Come se non bastasse, alla vigilia della prima manovra (D.L. n. 98/11) erano circolate voci sulla possibile riduzione del 30% – a partire da gennaio 2012 – della voce “agevolazioni ed incentivi” presente nelle bollette di luce e gas, prontamente smentite, ma indice di un fondato su equivoci, non chiaro, né tantomeno lineare, coerente e concordato.

Le reazioni da parte degli operatori del settore non si sono fatte attendere: l’A.N.E.V. ha definito la scelta del Governo di estendere la Robin tax come “l’ennesimo tentativo di attacco inaccettabile all’energia da fonte rinnovabile eolica portato senza alcuna pianificazione o concertazione, e a pochi giorni dall’emanazione dei provvedimenti di riordino del settore [che] rischia di ritorcersi come un boomerang contro il Governo, bloccando anche la crescita di un settore che invece è strategico per il rilancio dell’economia”, mentre le principali sigle sindacali del comparto elettrico hanno evidenziato che la Robin tax “penalizza uno dei pochi settori industriali che, anche nell’attuale difficile congiuntura, continua ad investire nel nostro Paese, creando lavoro per le imprese e occupazione qualificata, con piani di assunzione già concordati, e delegittima l’indipendenza dell’autorità per l’energia elettrica e il gas”. In sostanza, un provvedimento che, a fronte di un modesto beneficio sui conti pubblici (stimato dal Governo in 3 milioni e mezzo di € di extra gettito fiscale per i prossimi tre anni), mette a rischio, nella sua attuale formulazione, molti investimenti già effettuati, finalizzati allo sviluppo delle infrastrutture, all’ammodernamento delle centrali elettriche e, soprattutto, alla crescita della produzione da fonti rinnovabili: obiettivi che hanno il comune scopo di ridurre la bolletta energetica, migliorare la qualità del servizio e ridurre l’impatto ambientale.

Tant’è vero che, nella seduta del 23 agosto 2011, la Commissione industria, commercio e turismo del Senato ha espresso un parere sfavorevole al suo mantenimento, nell’attuale formulazione.

Dopo aver manifestato il proprio apprezzamento favorevole per la rapidità con cui il Governo ha adottato il provvedimento d’urgenza de quo, con il quale vengono individuati interventi per la stabilizzazione finanziaria, lo sviluppo e la crescita economica, la Commissione industria del Senato, pur considerando necessario il raggiungimento degli obiettivi del pareggio di bilancio, ha sottolineato che le scelte adottate sono inadeguate, perché:

– non rispondono alle reali esigenze del Paese, né alle specifiche indicazioni e raccomandazioni espresse dall’Unione Europea in tema di stabilità e sviluppo;

– non prevedono misure per il rilancio industriale e lo sviluppo sostenibile, con particolare riguardo alla scelta di politiche stabili e di lungo periodo, allo sviluppo di politiche di integrazione tra filiere manifatturiere e settori dei servizi per l’industria, all’identificazione di alcune priorità su cui indirizzare investimenti e risorse imprenditoriali (filiere della green economy: chimica verde, efficienza energetica, rinnovabili, edilizia e mobilità), al made in Italy (con particolare enfasi sulla meccanica dei beni di investimento, servizi inclusi) e allo sviluppo delle tecnologie della salute, per i beni culturali e per l’ambiente;

– prefigurano un andamento recessivo per la nostra economia e, soprattutto, sono del tutto inique sul piano sociale;

– non contengono alcuna significativa misura per lo sviluppo e la crescita.

Sulla stessa lunghezza d’onda si pongono le considerazioni svolte dall’A.E.E.G. nella successiva segnalazione al Parlamento e al Governo in ordine ad alcuni effetti dell’art. 7 del D.L. n. 138/11, in cui l’autorità ha messo in luce le principali criticità che la sua definitiva entrata in vigore, nei termini fin qui indicati, produrrebbe sugli investimenti nei settori termoelettrico e rinnovabile, e in quello relativo ai servizi a rete delle attività energetiche.

L’effetto principale dell’aumento dell’I.R.E.S., secondo l’A.E.E.G., consiste nel ridurre la propensione all’investimento nell’attività colpita dall’aumento stesso, perché nelle attività svolte a mercato, si può rispettare il divieto di traslare l’onere sui prezzi/tariffe al consumo solo attraverso la contrazione degli investimenti.

Le condizioni di mercato del 2008, che hanno giustificato l’introduzione della Robin tax, consentivano comunque alle imprese coinvolte margini di profitto tali da non dare luogo a criticità sul livello degli investimenti: nel nuovo contesto di mercato, caratterizzato dalla contrazione dei consumi in seguito alla crisi internazionale, e dalla riduzione della quota di mercato contendibile in seguito all’aumento delle fonti rinnovabili incentivate, i margini conseguibili dagli impianti termoelettrici si sono fortemente ridotti, con la conseguenza che l’aumento dell’addizionale I.R.E.S.:

– non solo rischia di colpire il settore termoelettrico proprio nel momento di sua maggiore debolezza, “riducendo la capacità di fare fronte al momento di transitorio eccesso di capacità produttiva e di ridurre, quindi, la capacità del sistema di operare in sicurezza nel medio periodo, quando la ripresa della domanda, la contrazione attesa delle importazioni dall’estero e le aumentate esigenze di riserva poste dallo sviluppo delle rinnovabili richiederanno di poter disporre di capacità produttiva tradizionale per quantità non inferiori a quelle attuali”,

– ma crea le basi affinché tali criticità si presentino anche con riferimento alle fonti rinnovabili, riducendo la propensione all’investimento in un settore fondamentale per la gestione delle problematiche ambientali e la crescita sostenibile dell’economia, e ai servizi a rete delle attività energetiche.

La nuova disposizione prevista dall’articolo 7, infatti, prevedendo un incremento del 10,5% dell’I.R.E.S. per le imprese che gestiscono le infrastrutture energetiche a rete, riveste profili di criticità per lo sviluppo della infrastrutturazione energetica del Paese, presupposto indispensabile affinché al settore produttivo e ai consumi domestici possa essere fornita energia a prezzi competitivi e allineati con gli altri Paesi dell’Unione Europea.

La nuova disposizione nella sua declinazione attuale, di fatto, “diminuisce la remunerazione effettivamente riconosciuta agli investimenti nel settore, spingendo le imprese ad una contrazione degli stessi, rende meno attrattivo l’investimento nelle imprese di settore da parte di soggetti privati terzi () e conseguentemente più difficile la raccolta di capitali per finanziare gli investimenti, induce le imprese a operazioni, anche di tipo contabile, che possano contenere l’impatto della manovra sul dividend yield e, infine, rende meno attrattivo il percorso virtuoso di contenimento dei costi e di riduzione delle tariffe”. Senza contare il fatto che il meccanismo di vigilanza sul divieto di traslazione, assegnato all’A.E.E.G., risulta essere di difficile e laboriosa attuazione, soprattutto in mancanza dell’attribuzione di espliciti poteri sanzionatori e prescrittivi.

L’auspicio è che il Governo, sulla base delle indicazioni fornite dai due organismi, riveda le decisioni de quibus, attraverso il più organico e coerente sistema suggerito dalla Commissione industria, la quale ha osservato che l’aliquota di cui all’articolo 7, che dovrà avere necessariamente natura provvisoria, dovrebbe essere mantenuta al livello attuale, al fine di non bloccare gli investimenti già programmati e quelli in fase di programmazione nel settore energetico, e segnalato che sarebbe opportuno valutare l’eventuale estensione dell’aliquota stessa ad altri settori regolati, al fine di garantire un gettito analogo a quello originariamente previsto dal provvedimento d’urgenza.

Il tempo stringe, ma a tutt’oggi il Governo non ha assunto una posizione definita (non solo) sul ruolo che la produzione energetica può assumere nell’uscita del nostro Paese da una crisi economica che necessita di misure concrete, durature e (se non perfette, almeno) sostenibili.

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