Edilizia

Terzo condono edilizio: quali limiti applicativi del D.L. n. 269/2003?

Il Consiglio di Stato chiarisce i requisiti per il cosiddetto terzo condono edilizio, tra cui ad esempio la natura residenziale della costruzione
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Terzo condono edilizio: quali limiti applicativi del D.L. n. 269/2003?
La normativa nazionale in tema di condono di abusi edilizi è intervenuta mediante alcune leggi speciali a tempo. Nel dettaglio si parla del terzo condono edilizio approvato e istituito con le leggi n. 47/1985 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia. Sanzioni amministrative e penali), n. 724/1994 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) e n. 326/2003 (recante disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici). Dal 2003 non c’è stato più alcun condono edilizio. E, nel caso in cui si ritenga necessario ricorrere ad una sanatoria, dovrà essere utilizzato lo strumento della sanatoria edilizia.

Condono e Sanatoria, le differenze

I due istituti del condono e della sanatoria, però differiscono su aspetti molto importanti e stringenti. Entrambi sono misure volte a sanare una situazione di irregolarità. Ma mentre il condono ha carattere straordinario e durata temporale limitata (la legge che lo prevede, stabilisce anche la scadenza entro cui presentare la domanda, oltre tale data non è più possibile regolare la posizione attraverso il condono), la sanatoria edilizia invece, (detta anche “accertamento di conformità”) è una misura ordinaria e sempre vigente, sancita negli articoli 36 e 45 del D.P.R. n. 380/2001 (c.d. Testo unico Edilizia). Diversamente dal condono però, che può stabilire una regolarizzazione assoluta e senza condizioni, la sanatoria si può ottenere solo in presenza di specifiche condizioni:
  • la doppia conformità agli strumenti urbanistici;
  • l’assenza di contrasto con gli strumenti urbanistici.
La sanatoria è quindi una possibilità consentita in qualsiasi momento, ma che permette di sanare delle irregolarità non proprio eclatanti e afferenti aspetti procedurali.

Il caso della sentenza 3342/2021

Recentemente il Consiglio di Stato, con sentenza del 26/04/2021, n. 3342, si è pronunciato sul tema, in un ricorso presentato per la riforma di una decisione di primo grado che, aderendo a quanto statuito dal Comune, aveva rigettato l’istanza di sanatoria edilizia presentata dal ricorrente ai sensi della Legge n. 326/2003 (terzo condono edilizio), avente ad oggetto una nuova costruzione destinata ad attività commerciale su un terreno di sua proprietà. In particolare, si legge, l’interessato ha rappresentato di aver edificato sul proprio suolo due immobili adiacenti e comunicanti e di aver ottenuto, in data 14 ottobre 2005, per un immobile il permesso di costruire in sanatoria con cambio di destinazione d’uso, da residenziale a commerciale, e di aver chiesto, per l’altro, adibito a deposito, la su citata domanda sanatoria del 31 marzo 2004, respinta dal Comune con il provvedimento amministrativo impugnato, preceduto da un preavviso di rigetto, richiamando l’art. 32, comma 25, del D.L. n. 269 del 2003 convertito in L. n. 326 del 2003, secondo cui le disposizioni sulla sanatoria si applicano alle sole nuove costruzioni residenziali, con conseguente insanabilità delle nuove costruzioni ad uso commerciale.

Esito della decisione e sviluppi

Il Consiglio di Stato, ha sostenuto la correttezza della sentenza di primo grado, prestando fede anch’egli all’art. 32, comma 25 della Legge n. 326/2003 (Conversione in legge del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 recante Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici). Che prevede: “Le disposizioni di cui ai Capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47 e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall’articolo 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 e successive modificazioni e integrazioni, nonché dalla presente normativa, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31 marzo 2003 e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento superiore a 750 metri cubi. Le suddette disposizioni trovano altresì applicazione alle opere abusive realizzate nel termine di cui sopra relative a nuove costruzioni residenziali non superiori a 750 metri cubi per singola richiesta di titolo abilitativo edilizio in sanatoria, a condizione che la nuova costruzione non superi complessivamente i 3.000 metri cubi“. Come si legge nella disposizione, uno dei requisiti richiesti dalla norma è quello che la costruzione deve avere natura residenziale. Come confermato dal Consiglio di Stato, la giurisprudenza amministrativa, all’esito di un’interpretazione letterale, logica e sistematica della suddetta disposizione ha precisato che il condono edilizio previsto ai sensi dall’art. 32 del D.L. n. 269 del 2003 convertito in L. n. 326 del 2003 si applica unicamente in presenza di nuove costruzioni che abbiano destinazione residenziale, non essendo ammissibile, tra l’altro, in presenza di una normativa eccezionale, postulare una sua interpretazione analogica.

Violazione della circolare MIT

L’appellante ha lamentato altresì la violazione della circolare del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti n. 2699/05 (recante misure per la riqualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l’incentivazione dell’attività di repressione dell’abusivismo edilizio, nonché per la definizione degli illeciti edilizi e delle occupazioni di aree demaniali». Circolare esplicativa), che avrebbe affermato la condonabilità, ai sensi del citato art. 32, comma 25, delle nuove costruzioni con destinazione d’uso non residenziale, anche oltre i limiti volumetrici previsti per i manufatti residenziali.

Le circolari non hanno valore normativo

Il Consiglio di Stato ha tuttavia precisato che “al riguardo si osserva che le circolari non sono fonti del diritto e non vincolato gli organi giurisdizionali; esse possono avere rilievo soltanto nel concreto accertamento del vizio dell’eccesso di potere, che nel caso di specie è del tutto irrilevante, essendo il provvedimento amministrativo di rigetto totalmente conforme al quadro ordinamentale. Sul tema la giurisprudenza ha reiteratamente e univocamente sottolineato che le circolari ministeriali non costituiscono fonte di diritti ed obblighi, non discendendo da esse alcun vincolo neanche per la stessa amministrazione che le ha emanate (cfr. Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 30 settembre 2020, n. 20819, e Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 2 novembre 2007, n. 23031) e a fortiori per un’amministrazione diversa da quella emanante, come nel caso di specie; E’ stato altresì evidenziato che «Le circolari amministrative non hanno valore normativo o provvedimentale e non assumono carattere vincolante per i soggetti destinatari dei relativi atti applicativi, che non hanno l’onere di impugnarle, ma possono limitarsi a contestarne la legittimità al solo scopo di sostenere che detti atti sono illegittimi perché scaturiscono da una circolare illegittima che avrebbe dovuto essere disapplicata; ne discende, a fortiori, che una circolare amministrativa contra legem può essere disapplicata anche d’ufficio dal giudice investito dell’impugnazione dell’atto che ne fa applicazione, anche in assenza di richiesta delle parti» (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 28 gennaio 2016, n. 310; in termini identici anche Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 4 dicembre 2017, n. 5664). Alla luce di quanto sostenuto dai giudici amministrativi, l’appello è stato quindi respinto e confermata la sentenza di primo grado. Consiglio di Stato, sentenza del 26/04/2021, n. 3342
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