Caldo killer e fragilità ESG: perché anche le imprese devono cambiare aria

Le ondate di calore non sono più eventi eccezionali, ma segnali strutturali della crisi climatica in corso: sempre più anticipate, più intense, più letali. I dati dello studio del Grantham Institute sull’estate 2025 mostrano un legame diretto tra riscaldamento globale e mortalità urbana, con oltre 1.500 decessi attribuibili al cambiamento climatico in 12 città europee. Già nel 2023, un’indagine pubblicata su The Lancet aveva evidenziato la fragilità di contesti urbani come Milano, dove fattori strutturali moltiplicano l’impatto del caldo.
Di fronte a fenomeni sempre più ricorrenti, le misure emergenziali si rivelano insufficienti: servono scelte politiche, visioni urbanistiche e un cambiamento culturale che metta l’adattamento climatico al centro delle agende pubbliche e coinvolga anche le imprese, chiamate a leggere la crisi non solo come rischio per il business, ma come responsabilità sociale.
Questo non è un articolo per (e su) l’estate
Avvertenze per la lettura: questo non è un articolo da ombrellone, un “clickbait” nonostante tutto (conosciamo già il contenuto di quel tipo di articoli…), in cui si parla (di nuovo, come ogni anno) di cosa mangiare con il caldo, quanta acqua bere, a che ora è meglio allenarsi, del fatto che gli anziani devono rimanere a casa nelle ore più calde, e amenità discorrendo.
Articoli di buon senso, per carità, ma stucchevoli nella loro tragica e ripetitiva inutilità. Contenuti rassicuranti, a tratti utili, spesso dimenticabili.
No, non si tratta di quel tipo di articolo, quanto – piuttosto – della “cronaca di una morte annunciata”: fra il 23 giugno e il 2 luglio 2025, 317 persone sono morte a Milano per il caldo estremo. Che si aggiungono alle 286 di Barcellona, alle 235 di Parigi, alle 171 a Londra, alle 164 a Roma…
Sono i dati sulla mortalità urbana connessa al riscaldamento globale che emergono dallo studio condotto dal Grantham Institute dell’Imperial College London, “Climate change tripled heat-related deaths in early summer European heatwave”. Studio che ha quantificato con precisione ciò che la cronaca faticava a raccontare: durante l’ondata di calore del 23 giugno–2 luglio 2025, in 12 città europee si sono verificati 2.305 decessi legati al caldo, di cui 1.504 sono attribuibili direttamente al cambiamento climatico di origine antropica.
Non è solo caldo e non è sempre stato così
Le ondate di calore sono eventi climatici tra i più sottovalutati: eppure, secondo gli scienziati del Grantham Institute, possono essere tra i più letali.
La mortalità urbana causata dal caldo estremo è spesso sottostimata nei dati ufficiali, ma lo studio appena pubblicato fornisce una stima scientificamente solida: il riscaldamento globale ha triplicato il numero delle vittime. Con margini di confidenza rigorosi, la scienza conferma ciò che la percezione sociale fatica ad ammettere: il caldo uccide, e lo fa in misura crescente per colpa nostra.
L’ondata di calore è arrivata prima del previsto, colpendo a giugno zone d’Europa in cui queste temperature sono di norma attese tra luglio e agosto. E proprio per questo si è rivelata più letale: perché nessuno era pronto, né fisicamente né socialmente. Le persone non erano acclimatate, i servizi sanitari non avevano ancora attivato pienamente le contromisure, e i più fragili – soprattutto gli over 65 – si sono trovati esposti senza difese. Secondo le stime, oltre l’80% dei decessi ha riguardato persone in età avanzata, ma non sono mancate le vittime tra i più giovani e in età lavorativa.
Questi fenomeni non sono più eccezionali: lo studio dimostra che, nel clima attuale già riscaldato di +1,3°C rispetto all’era preindustriale, ondate di calore di questa intensità possono verificarsi ogni due o cinque estati. Sono diventate parte del nostro orizzonte climatico. Non eventi straordinari, ma nuova normalità.
E le conseguenze non si fermano ai decessi diretti: le alte temperature seccano boschi, arbusti, lettiera forestale. Il rischio incendi aumenta esponenzialmente, e il fumo che ne deriva amplifica ulteriormente i danni alla salute, in un effetto domino non quantificato in queste stime, ma ben presente nella realtà.
Riscaldamento globale e mortalità urbana: cronaca di una strage annunciata
Già due anni fa, uno studio pubblicato su The Lancet Planetary Health (“Excess mortality attributed to heat and cold: a health impact assessment study in 854 cities in Europe”) aveva tracciato con inquietante lucidità il perimetro del rischio. Le città europee, in particolare quelle dell’Europa meridionale, non erano affatto pronte ad affrontare ondate di calore sempre più frequenti, anticipate e letali.
L’analisi, condotta su 854 città, identificava Milano come uno dei principali hotspot di vulnerabilità climatica, a causa della convergenza di fattori strutturali: un’alta quota di popolazione anziana, ampie sacche di povertà energetica, scarsità di spazi verdi, isolamento sociale, urbanizzazione densa e poco permeabile al raffrescamento naturale.
Il messaggio era chiaro: non si trattava solo di prevenire il caldo, ma di ripensare l’intero sistema urbano e sociale di fronte a un clima che cambia più in fretta delle nostre città.
Eppure, in assenza di azioni strutturali, ciò che nel 2023 era un profilo teorico di rischio è diventato, nell’estate del 2025, una contabilità funebre precisa, cruda e scientificamente confermata.
I dati strutturali della mortalità urbana, le politiche emergenziali contro il riscaldamento globale e lo spiraglio di luce
Quelli citati sono solo due degli studi che – con buona pace dei negazionisti – dimostrano il trend esponenziale degli effetti del climate change, ed evidenziano che la crisi climatica, se lasciata agire su un tessuto urbano vulnerabile, trasforma le città in luoghi ad alta letalità ambientale.
Ed è proprio questa continuità che rende inaccettabile il ritardo con cui si continua a trattare il tema dell’adattamento climatico come una questione secondaria, episodica, gestibile con misure emergenziali e comunicati stampa.
Eppure, tra i dati e i decessi, qualche spiraglio di luce esiste.
Non si tratta di facili rassicurazioni, ma di indicazioni precise, formulate dagli stessi ricercatori che hanno denunciato la gravità della situazione.
Lo studio pubblicato su The Lancet nel 2023 suggeriva già una direzione: investire sull’adattamento urbano, potenziare le reti di assistenza sociale, progettare città più verdi, più ventilate, più vivibili.
L’adozione di sistemi di allerta precoce, l’accesso a spazi blu e verdi, l’isolamento termico degli edifici e il rafforzamento delle politiche di sostegno per anziani e soggetti fragili non sono misure simboliche: sono strumenti di sopravvivenza.
Allo stesso modo, il rapporto del Grantham Institute ha richiamato l’urgenza di trasformare le città europee in luoghi capaci di resistere al caldo estremo, attraverso una nuova visione di urbanistica climatica e giustizia ambientale.
Non è un Paese per vecchi (ma neanche per tutti gli altri)
Questo, lo abbiamo detto fin dall’inizio, non è un articolo per l’estate né sull’estate. E – a differenza di quelli – non è nemmeno rassicurante. Non elenca rimedi, non suggerisce menù anti-afa, non regala orari ottimali per le passeggiate. E non offre soluzioni pronte all’uso, se non quella più scomoda e al tempo stesso più necessaria: il cambiamento culturale. Perché prima delle tecnologie, prima degli incentivi, prima dei piani strategici, serve un altro modo di vedere il mondo, e di stare nel mondo.
Continuare a trattare l’emergenza climatica con strumenti pensati per la normalità di ieri è un errore concettuale prima ancora che politico. “Toglimi una curiosità”, dice Anton in “Non è un paese per vecchi”. “Se le regole che hai seguito ti hanno portato sino a questo punto, a che servivano quelle regole?”.
Vale anche per le nostre politiche e per il nostro approccio culturale. Se questi sono i risultati, è evidente che “qualcosa” non ha funzionato – e continuare così non farà che certificare il disastro.
Non si tratta più di tornare a com’era prima: il processo è in corso, irreversibile.
Continuare a inseguire l’equilibrio perduto è una trappola. “Tutto il tempo che passi a cercare di riprenderti quello che ti hanno portato via è tempo sprecato”, come dice il personaggio Ellis nello stesso film.
È tempo, invece, di costruire un nuovo ordine – culturale, innanzitutto: quello che la Politica dovrebbe veicolare – dove le città non siano trappole termiche e la fragilità sociale non coincida con la probabilità di morire d’estate.
Serve visione, e serve governo.
Non per tornare indietro, ma per aprire almeno un varco nel destino che…
…che ci stiamo cu(o)cendo addosso
Sembrava la fine.
E invece no.
Parlare di cultura significa anche chiamare in causa il mondo produttivo: perché se è vero che la crisi climatica è innanzitutto una sfida politica e sociale, è altrettanto vero che nessun cambiamento sarà possibile senza una ridefinizione del ruolo delle imprese.
Nei bilanci di sostenibilità e nei criteri ESG si parla spesso – e con crescente dettaglio – di impatti ambientali, emissioni, efficientamento: ma quanto spazio trova la vulnerabilità climatica delle persone?
Quanto conta, nel perimetro della rendicontazione, chi lavora esposto al caldo, chi vive in quartieri senza verde, chi rischia la salute in assenza di tutele?
La sostenibilità, se vuole essere qualcosa di più di una cornice formale, deve entrare nel merito delle disuguaglianze indotte dal cambiamento climatico, e chiedere alle aziende di attivare misure concrete. Dalle dotazioni per il lavoro all’aperto ai centri di raffrescamento per i dipendenti. Dalla revisione dei protocolli di sicurezza alla gestione delle emergenze estive nei territori in cui operano.
Non per moralismo, ma per coerenza.
Perché sì, il caldo uccide, e uccide di più dove c’è solitudine, povertà, marginalità. E le imprese non possono più fare finta che tutto questo stia fuori dal loro perimetro di responsabilità.
Se cultura dev’essere, allora deve passare anche da qui: dalla capacità delle aziende di leggere il clima non solo come rischio per il business, ma come sfida di equità.
Il cambiamento climatico è già nei loro bilanci: ora deve entrare anche nei loro valori.
Anche questa è governance: il destino ce lo stiamo letteralmente cu(o)cendo addosso – ma c’è ancora modo di non finirlo bruciato.