Sicurezza e Ambiente

Come si indica l’origine a norma di legge

Come e quando vanno indicati il paese d’origine o di provenienza dell’alimento? e quando va indicato il luogo di provenienza dell’ingrediente primario? E cosa si intende per ingrediente primario?
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Come si indica l’origine a norma di legge

L’etichettatura dei prodotti alimentari rappresenti uno degli aspetti più problematici della legislazione alimentare, in quanto in essa si manifestano diverse, e talvolta opposte, esigenze.

L’indicazione del Paese di origine dell’alimento

Il regolamento (UE) n. 1169/2011 ha introdotto, in tema di indicazione del Paese di origine dell’alimento, un sistema più complesso rispetto a quello precedentemente dettato dalla direttiva 2000/13/CE.

Il nuovo regolamento stabilisce:

  • che il Paese di origine o quello di provenienza dovranno essere indicati sempre per alcune carni (fresche, refrigerate o congelate) di specie suine, ovine, oppure di volatili di specie domestiche. Non più, dunque, soltanto per carne bovina o di pollame importato, come in precedenza. Tale obbligo è divenuto effettivo (ex art. 26, par. 8) solo con l’adozione del regolamento (UE) n. 1337/2013;
  • e che, in aggiunta al Paese d’origine o al luogo di provenienza – definiti come sopra – si dovrà indicare anche il luogo di origine o di provenienza dell’“ingrediente primario”, ma soltanto se esso non coincide con origine o provenienza dell’alimento complessivamente inteso. In alternativa alla specificazione chiara del Paese, ci si potrà limitare a dichiarare genericamente che il Paese di origine o di provenienza dell’ingrediente primario “è diverso dal luogo d’origine o provenienza dell’alimento” (art. 26, par. 3). Le modalità precise con le quali adempiere a questo obbligo erano demandate ad un atto esecutivo della Commissione, che a tal fine ha adottato il regolamento di esecuzione (UE) 2018/775 del 28 maggio 2018, destinato ad applicarsi a partire da aprile 2020.

L’indicazione del paese d’origine dell’alimento primario

Il regolamento di esecuzione (UE) 2018/775, da un lato, ribadisce il concetto per cui ogniqualvolta il Paese di origine dell’alimento (cioè quello della sua ultima trasformazione sostanziale: il “Made in …”) sia indicato sull’etichetta – non importa se si tratti di indicazione obbligatoria o volontaria – va specificato anche il Paese di origine dell’ingrediente primario, se non coincidente con quello dell’alimento finito.

Dall’altro, però, individua una così ampia gamma di possibili modalità per tale specificazione, da limitare molto la portata informativa di questo strumento.

Per capirci, è sufficiente dire al consumatore (sull’etichetta) che l’origine dell’ingrediente primario è “UE” (se si tratta di ingrediente originario di un altro Paese dell’Unione), oppure “non UE” (se si tratta di ingrediente originario di uno o più Paesi terzi), oppure “UE e non UE” se l’ingrediente primario risulta dalla miscelazione di parti aventi origine in altri Stati membri dell’UE e parti aventi origine in uno o più Paesi terzi.

Oppure, in alternativa, si può essere più chiari e precisi precisando il nome di un Paese (membro o terzo), o addirittura il nome di una o più regioni o zone geografiche all’interno di uno o più Paesi (membri o terzi), purché si tratti di regioni o zone definite dal diritto internazionale o note ai consumatori mediamente avveduti e informati (sull’etichetta di un prodotto da forno si potrebbe scrivere, ad esempio: “Origine della farina: Provenza”).

O ancora, ci si può semplicemente limitare a scrivere che l’“[ingrediente primario] non proviene da [paese d’origine o luogo di provenienza dell’alimento]” (ad esempio, per biscotti sulla cui confezione appaia la scritta “made in Italy” si potrebbe scrivere soltanto “la farina di grano tenero non proviene dall’Italia”).

Con riguardo a questa possibilità, ci sarebbero molte considerazioni da fare.

In primo luogo, va detto che essa non veicola informazioni particolarmente significative: certo, dice che il biscotto è stato impastato e infornato in Italia, utilizzando farina di diversa provenienza, e può pure darsi che ciò interessi al consumatore medio; ma altrettanto certamente non gli permette di sapere di che Paese sia originaria la farina, né tanto meno il grano.

Inoltre, è curioso come – proprio ora che il Legislatore europeo ha avuto cura di distinguere espressamente e chiaramente il concetto di “origine” da quello di “provenienza” (art. 2, parr. 2 e 3 del regolamento (UE) n. 1169/2011) – la Commissione consenta di assolvere l’obbligo di indicare l’“origine” dicendo che l’ingrediente primario ha una diversa “provenienza”, con una evidente confusione fra i due concetti giuridici.

Una precisazione molto importante data dal regolamento (UE) n. 2018/775 è che l’obbligo di specificare l’origine dell’ingrediente primario non sorge solo quando sull’etichetta è scritto testualmente “Made in …”, oppure “Fabbricato/prodotto in …”, o espressioni analoghe.

L’obbligo sorge quando sull’etichetta figura qualcosa che appare indicare al consumatore il Paese di origine dell’alimento (inteso come prodotto completo e finito) “attraverso qualunque mezzo, come diciture, illustrazioni, simboli o termini che si riferiscono a luoghi o zone geografiche”: dunque, anche senza che vi sia scritto “Made in Italy”, la presenza in etichetta della bandiera italiana (o dei suoi colori abilmente disposti in modo da ricordarla univocamente), o della sagoma dell’Italia, o dell’immagine del Colosseo o della Torre di Pisa, sono sufficienti a rendere obbligatoria la specificazione del Paese di origine dell’ingrediente primario.

Questa regola, peraltro, soffre di diverse eccezioni. In sintesi, non si applica:

  • quando all’interno di una denominazione usuale e generica sia presente un riferimento geografico che letteralmente indicherebbe l’origine, ma che comunemente non viene più interpretato come indicazione del vero paese d’origine o del luogo di provenienza del prodotto (es. “Salsa Worcester” letteralmente indicherebbe un’origine, ma l’espressione nel tempo è divenuta denominazione che individua una tipologia di condimento, fatto in un certo modo e avente certe caratteristiche);
  • quando il riferimento geografico è contenuto in una DOP o in una IGP (nel qual caso l’origine dell’ingrediente primario non va indicata, e le regole del disciplinare esauriscono ogni obbligo);
  • quando il nome o riferimento geografico sia parte di un marchio regolarmente registrato; in questo caso non è escluso che debbano rispettarsi delle regole, ma queste non esistono ancora: dovranno essere dettate con apposito esecutivo della Commissione (che ancora non lo ha adottato).

Vi è poi tutta l’ampia questione di cosa debba intendersi per “ingrediente primario”, la cui nozione giuridica – dettata dall’art. 2, par. 2, lett. q, del regolamento (UE) n. 1169/2011 – è del tutto ambigua, e non ha trovato chiarimento alcuno nel regolamento (UE) n. 2018/775.

Esso viene definito come “l’ingrediente o gli ingredienti di un alimento che rappresentano più del 50% di tale alimento o che sono associati abitualmente alla denominazione di tale alimento dal consumatore, e per i quali nella maggior parte dei casi è richiesta un’indicazione quantitativa”.

La norma, secondo la lettura più semplice e più condivisa, individua due possibili nozioni alternative: il cosiddetto “ingrediente primario quantitativo” e il cosiddetto “ingrediente primario qualitativo” (quest’ultimo per lo più coincidente con il cosiddetto “ingrediente caratterizzante”, per il quale l’art. 22 del regolamento (UE) n. 1169/2011 richiede di specificare, nell’elenco degli ingredienti, la quantità presente, ossia il cosiddetto “quid”).

I principali problemi che rimangono totalmente aperti ed irrisolti sono due:

  1. in che rapporto stanno le due nozioni tra loro, posto che il testo del regolamento sembrerebbe considerarle semplicemente alternative? (in altri termini: quando vi è sia un “ingrediente primario quantitativo” sia uno “qualitativo”, di quale deve essere indicata l’origine?); e
  2. qual è l’ingrediente primario oggetto dell’obbligo, quando non se ne possa individuare né uno quantitativo (perché nessuno degli ingredienti rappresenta più del 50% del prodotto) né uno qualitativo (perché nessuno degli ingredienti è tale da essere associato dai consumatori al prodotto stesso)?

Dal regolamento del 2018 non si evince alcuno spunto per rispondere a tali dubbi.

La ratio della disposizione sembra chiara: tutelare un interesse del consumatore ritenuto meritevole di protezione (quello ad essere informato della diversità fra Paese di origine dell’alimento e Paese di origine di un ingrediente in qualche modo “più importante degli altri”, secondo il consumatore medesimo).

E dunque, se l’interpretazione seguisse la ratio (e il buon senso), dovremmo pensare che l’ingrediente primario sia innanzitutto – quando c’è – quello che il consumatore associa abitualmente alla denominazione (o che addirittura fa parte della denominazione), perché ritenuto tale da conferire peculiari qualità all’alimento.

Ad esempio, in un’aranciata è ragionevole immaginare che al consumatore interessi l’origine delle arance, non dell’acqua (benché l’ingrediente quantitativamente prevalente, e dunque “primario”, sia l’acqua); e così pure nel caso di biscotti al cioccolato, ha più senso pensare che al consumatore interessi l’origine del cioccolato, piuttosto che quella della farina.

Se poi un ingrediente primario “qualitativo” non esiste, allora diviene sensato indicare l’origine dell’ingrediente primario “quantitativo” (quello che rappresenta più del 50% dell’alimento).

Tuttavia, una soluzione del genere non è affatto certa, considerando che il testo normativo non fornisce alcun aiuto a tal fine, e che anzi la norma definisce l’ingrediente primario utilizzando l’espressione “l’ingrediente o gli ingredienti” (così lasciando legittimamente pensare che si possa individuare anche una somma di ingredienti come “primari”, tutti assieme considerati: ma con quali criteri scegliere gli ingredienti da sommare?).

La Commissione europea, interpellando i governi degli Stati membri per ricevere indicazioni con cui redigere future Linee Guida applicative del regolamento, ha ricevuto le risposte più diverse e disparate, fra Paesi che vorrebbero optare (come l’Italia) per la priorità dell’“ingrediente primario quantitativo”, altri che ritengono di assegnare una primazia a quello “qualitativo”, altri che considerano equivalenti i due criteri (ritenendo che l’operatore alimentare possa scegliere a piacimento di quale indicare l’origine), altri secondo i quali potrebbe non esistere affatto un ingrediente primario (laddove non ne sia individuabile né uno quantitativo né uno qualitativo) con conseguente assenza di obbligo informativo, altri infine che reputano impossibile l’assenza di un ingrediente primario.

Sembra la più chiara dimostrazione che si tratta di una disciplina che complica inutilmente, e al momento in modo insolubile, gli obblighi dell’operatore.

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