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Subappalto, l’eterna diatriba tra normative

Una nuova sentenza della Corte di Giustizia Europea sui limiti alla quota del subappalto e sul ribasso minimo praticabile al sub-appaltatore
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Subappalto, l’eterna diatriba tra normative

La Corte di Giustizia Europea, Quinta Sezione, con la sentenza del 27 novembre 2019, è tornata a pronunciarsi sulla delicata questione concernente la compatibilità con il diritto europeo dei limiti previsti dalla normativa nazionale in tema di subappalto. Il fatto ha origini antiche. Con bando di gara pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea nel dicembre 2015, l’Università  di Roma La Sapienza aveva indetto una procedura di gara aperta per l’affidamento di un appalto pubblico di servizi di pulizia, della durata di cinque anni, da aggiudicarsi secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. L’importo a base di gara di detto appalto pubblico era stimato in euro 46.300.968,40, al netto dell’imposta sul valore aggiunto.

Subappalto e tema del ricorso

L’azienda classificata seconda nella graduatoria all’esito della procedura di gara aveva proposto un ricorso dinanzi al Tar per il Lazio. L’obiettivo era ottenere l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione dell’appalto pubblico. Il tema di fondo era la violazione dei limiti generali previsti dal diritto italiano. Questo perché la quota parte dell’appalto che l’aggiudicatario intendeva subappaltare rappresentava oltre il 30% dell’importo complessivo di tale appalto pubblico.

Inoltre, essa sosteneva che l’offerta presentata dall’aggiudicatario non era stata oggetto di una attendibile disamina in concreto da parte della stazione appaltante. Questo poiché quest’ultima aveva accettato, in violazione delle pertinenti disposizioni del diritto italiano, un ribasso della remunerazione corrisposta alle imprese subappaltanti superiore al 20% rispetto ai prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione.

Il comportamento del Tar del Lazio

Il Tar per il Lazio aveva accolto tale ricorso, ma la sentenza era stata appellata dall’azienda vincitrice della gara. Il giudice del rinvio aveva espresso dubbi in merito alla compatibilità  della normativa italiana in materia di appalti pubblici con il diritto dell’Unione Europea. In particolare, il Consiglio di Stato osserva che i limiti previsti dal diritto interno in materia di subappalto possono rendere più difficile l’accesso agli appalti pubblici per le imprese. E questo specialmente per quelle di piccole e medie dimensioni, ostacolando così l’esercizio della libertà  di stabilimento e della libera prestazione dei servizi. Esso rileva che detti limiti possono altresì precludere agli acquirenti pubblici l’opportunità  di ricevere offerte più numerose e più diversificate.

Tuttavia, il giudice del rinvio fa altresì osservare che l’obiettivo di assicurare l’integrità  degli appalti pubblici e la loro immunità da infiltrazioni della criminalità poteva giustificare l’istituzione di una restrizione alla libertà  di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi.

Inoltre, esso fa valere, da un lato, che, se il limite del 20% fosse abrogato, potrebbero essere praticate forme occulte di dumping salariale, idonee a produrre effetti anticoncorrenziali. Dall’altro lato, esso osserva che, qualora fosse abrogato anche il limite del 30%, l’adempimento di taluni appalti potrebbe essere posto a rischio per la conseguente difficoltà  di valutare la sostenibilità  – e quindi l’assenza di anomalie – delle offerte.

Questione pregiudiziale e subappalto

Il Consiglio di Stato ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia Europea la questione pregiudiziale sulla conformità  al diritto europeo di due limiti presenti nella normativa nazionale:

  • il limite del 30%, quale quota massima subappaltabile dall’affidatario a terzi;
  • il limite del 20%, quale ribasso massimo praticabile al subappaltatore sui medesimi prezzi risultanti dall’aggiudicazione.

In entrambi i casi, la Corte di Giustizia Europea ha riconosciuto l’incompatibilità  della disciplina italiana rispetto ai principi europei e alla normativa contenuta nelle direttive appalti.

Il limite del 30% al subappalto

Per quanto riguarda la questione concernente il limite del 30% come quota massima sub-appaltabile a terzi, la Corte ha sostanzialmente confermato quanto già sancito nella recente sentenza del 26 settembre 2019 (C-63/18).

E’ vero che la direttiva 2004/18 – ricorda la Corte – sancisce la facoltà, per gli offerenti, di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un appalto. Tuttavia, qualora i documenti dell’appalto impongano agli offerenti di indicare, nelle loro offerte, le parti dell’appalto che essi hanno eventualmente l’intenzione di subappaltare e i subappaltatori proposti, l’amministrazione aggiudicatrice ha il diritto, per quanto riguarda l’esecuzione di parti essenziali dell’appalto, di vietare il ricorso a subappaltatori. Questo nel caso in cui non sia stata in grado di verificare le capacità in occasione della valutazione delle offerte e della selezione dell’aggiudicatario.

Una normativa nazionale che impone un limite al ricorso a subappaltatori per una parte dell’appalto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso. E ciò a prescindere dalla possibilità di verificare le capacità degli eventuali subappaltatori e il carattere essenziale degli incarichi di cui si tratterebbe. Risulterebbe incompatibile con l’obiettivo dell’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile. E faciliterebbe l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, a vantaggio non soltanto degli operatori economici, ma anche delle amministrazioni aggiudicatrici.

Le infiltrazioni della criminalità nei cantieri

Il contrasto al fenomeno dell’infiltrazione della criminalità  organizzata nel settore degli appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo. E in questo ambito si potrebbe giustificare una restrizione alle norme fondamentali e ai principi generali del Trattato Europeo che si applicano nell’ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici. Ma, tuttavia, anche supponendo che una restrizione quantitativa al ricorso al subappalto possa essere considerata idonea a contrastare siffatto fenomeno, una restrizione come quella oggetto del procedimento principale eccede quanto necessario al raggiungimento di tale obiettivo. E viola i principi di parità di trattamento, di trasparenza e di proporzionalità che le amministrazioni aggiudicatrici sono tenute a rispettare nel corso di tutta la procedura i principi di aggiudicazione degli appalti.

La questione dei divieti

Il divieto generale e astratto al ricorso al subappalto per una quota parte che superi una percentuale fissa dell’importo dell’appalto pubblico si applica indipendentemente dal settore economico interessato dall’appalto, dalla natura dei lavori o dall’identità  dei subappaltatori, e non lascia spazio alcuno a una valutazione caso per caso da parte dell’ente aggiudicatore. La conseguenza è che per tutti gli appalti una parte rilevante dei lavori, delle forniture o dei servizi interessati dev’essere realizzata dall’offerente stesso, sotto pena di vedersi automaticamente escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto, anche nel caso in cui l’ente aggiudicatore sia in grado di verificare le identità  dei subappaltatori interessati e ove ritenga, in seguito a verifica, che tale limite al ricorso al subappalto non sia necessario al fine di contrastare la criminalità  organizzata.

L’obiettivo perseguito dal legislatore italiano potrebbe essere raggiunto da misure meno restrittive, come l’approccio consistente nell’obbligare l’offerente a fornire nella fase dell’offerta le identità  degli eventuali subappaltatori, al fine di consentire all’amministrazione aggiudicatrice di effettuare verifiche nei confronti dei subappaltatori proposti, almeno nel caso degli appalti che si ritiene rappresentino un maggior rischio di infiltrazione da parte della criminalità  organizzata.

La prevenzione richiesta dall’Italia e la posizione europea

L’esigenza, sostenuta dal governo italiano, di prevenire in tal modo le infiltrazioni mafiose nel settore degli appalti, non può comunque condurre all’introduzione di regole contrarie ai principi generali del Trattato sull’Unione Europea, ribaditi nei “considerando” 2, 6, 32 e 43 della direttiva 2004/18 (abrogata dalla direttiva 2014/24, con effetto dal 18 aprile 2016): libertà  di stabilimento, libera prestazione di servizi, proporzionalità.

Tutto ciò premesso, secondo la Corte la direttiva 2004/18 deve essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale (come quella italiana) limitare al 30% la quota parte di appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi.

Il limite del 20% al ribasso massimo praticabile al sub-appaltatore

Anche con riferimento alla questione riguardante l’impossibilità  di ribassare i prezzi applicabili al subappaltatore oltre il limite del 20%, la Corte ha riconosciuto l’incompatibilità  della norma nazionale con il diritto europeo, in base alle seguenti argomentazioni.

Il limite del 20% si impone in modo imperativo, a pena di esclusione dell’offerente dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto; è definito in modo generale e astratto, indipendentemente da qualsiasi verifica della sua effettiva necessità, nel caso di un dato appalto, di assicurare ai lavoratori di un subappaltatore interessati una tutela salariale minima; si applica a prescindere dal settore economico o dall’attività  interessata e indipendentemente da qualsiasi presa in considerazione delle leggi, dei regolamenti o dei contratti collettivi, tanto nazionali quanto dell’Unione europea, in vigore in materia di condizioni di lavoro, che sarebbero normalmente applicabili a detti lavoratori.

Ne consegue che detto limite è idoneo a rendere meno allettante la possibilità  offerta dalla direttiva 2004/18 di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un appalto, dal momento che tale normativa limita l’eventuale vantaggio concorrenziale in termini di costi che i lavoratori impiegati nel contesto di un subappalto presentano per le imprese che intendono avvalersi di detta possibilità. Un tale effetto dissuasivo contrasta con l’obiettivo dell’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile e, in particolare, dell’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici.

Un dettaglio importante

Non si può ritenere – afferma la sentenza – che una normativa nazionale riconosca ai lavoratori una tutela tale da giustificare un limite al ricorso al subappalto come il limite del 20%, che eccede quanto necessario al fine di assicurare ai lavoratori impiegati nel contesto di un subappalto una tutela salariale. Infatti, il limite del 20% non lascia spazio ad una valutazione caso per caso da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dal momento che si applica indipendentemente da qualsiasi presa in considerazione della tutela sociale garantita dalle leggi, dai regolamenti e dai contratti collettivi applicabili ai lavoratori interessati.

In secondo luogo, un limite al ricorso al subappalto come il limite del 20% non può essere giustificato neppure dall’obiettivo consistente nel voler garantire la redditività  dell’offerta e la corretta esecuzione dell’appalto, in quanto un tale limite generale e astratto è, in ogni caso, sproporzionato rispetto all’obiettivo perseguito, dal momento che esistono altre misure meno restrittive che faciliterebbero il raggiungimento di quest’ultimo.

La verifica delle offerte anormalmente basse rispetto alla prestazione, rende possibile, per un determinato appalto e alle condizioni previste a tal fine, il rigetto da parte dell’amministrazione aggiudicatrice delle offerte così qualificate. La mera circostanza che un offerente sia in grado di limitare i propri costi in ragione dei prezzi che egli negozia con i sub-appaltatori non è di per sé tale da violare il principio della parità  di trattamento, ma contribuisce piuttosto a una concorrenza rafforzata e quindi all’obiettivo perseguito dalle direttive adottate in materia di appalti pubblici.

Tutto ciò premesso, secondo la Corte, la direttiva 2004/18 deve essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale (come quella italiana) limitare la possibilità  di ribassare i prezzi applicabili alle prestazioni subappaltate oltre il 20% rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione.

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