La pendenza di condono non impedisce la demolizione di opere ulteriori e diverse
Il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 8310 del 17 ottobre 2024, ha respinto l’appello avverso la sentenza del Tar Campania, che aveva a sua volta respinto il ricorso contro l’ingiunzione a demolire talune opere abusive eseguite su un immobile in pendenza di pratiche di condono.
Demolizione in pendenza di condono: il caso
Secondo i ricorrenti, le opere da rimuovere avevano esclusiva funzione manutentiva e di creazione di volumi tecnici (pavimentazione dell’area cortilizia, scala di collegamento con ringhiera in ferro, locale deposito trasformato in appartamento, altro locale deposito, opere di intervento sul terrazzo, muro di delimitazione, pergola e pensilina) e quindi non sarebbe stato necessario alcun titolo edilizio, con conseguente illegittimità della sanzione ripristinatoria.
Il Tar aveva osservato che l’esercizio, da parte del Comune, del potere repressivo non poteva ritenersi inibito dagli effetti interdittivi del condono, in quanto posto in essere con riferimento ad opere successive e ulteriori rispetto a quelle per cui pendeva il procedimento di sanatoria. Era, infatti, mancata, da parte degli appellanti, su cui incombeva il relativo onere, la puntuale e rigorosa dimostrazione della coincidenza delle opere in questione con quelle oggetto di precedente istanza condonistica.
La prosecuzione dei lavori abusivi per opere in pendenza di condono
Il Consiglio di Stato conferma la sentenza del Tar, ritenendo l’effetto interdittivo alla demolizione – che peraltro non implica l’illegittimità del provvedimento che la irroga, ma solo la sospensione della relativa efficacia – opera unicamente con riferimento alle opere abusive dichiarate nella domanda di condono, non potendo evidentemente la suddetta istanza interferire con l’ordinario esercizio del potere repressivo di abusi ulteriori e diversi da quelli per cui risulta richiesta la sanatoria, come avvenuto nel caso specifico, in cui l’ordine demolitorio ha colpito interventi aggiuntivi che hanno significativamente trasformato i precedenti edifici da condonare.
In altri termini, le opere ulteriori – anche se riconducibili alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione o della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche – sono state realizzate in relazione ad un immobile sottoposto a domanda di condono non ancora definita, per cui deve ritenersi che le opere sanzionate con la gravata ordinanza, riferite ad un manufatto sub condono configurabile quale “nuova costruzione”, mutuino la medesima caratteristica di illegittimità dell’opera principale alla quale accedono e come tali siano sottoposte alla medesima sanzione. Esse, cioè, finiscono per integrare una prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi a loro volta illecite, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione.
La procedura per interventi in pendenza dell’istanza di condono
Quanto affermato dalla sentenza non esclude in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende l’istanza di condono, ma la condiziona al rispetto delle procedure di legge, segnatamente dell’art. 35 della legge n. 47/1985, ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica.
Il comma 14 dell’art. 35 prevede che, in caso di lavori di completamento, l’interessato notifichi al Comune il proprio intendimento, allegando perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi, iniziando i lavori non prima di trenta giorni dalla data della notificazione, consentendo l’esecuzione dei lavori solo dopo che dopo che siano stati espressi i pareri delle competenti amministrazioni, e che sia stata dichiarata la disponibilità dell’ente proprietario a concedere l’uso del suolo. Nel caso trattato, non risultava che la parte ricorrente, nell’intervenire sul manufatto oggetto di condono, avesse seguito la procedura di cui alla predetta disposizione.
Interesse pubblico e interesse privato
Anche il secondo motivo di appello, avente ad oggetto censure di carattere formale-procedimentale (assenza di comparazione dell’interesse pubblico con quello privato), è stato respinto, sulla base delle conclusioni cui è giunta la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 9/2017: “Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino“.
Il difetto di motivazione
In merito al lamentato difetto di motivazione dell’ordinanza, il Consiglio di Stato ricorda che, come costantemente affermato in giurisprudenza, l’ordine di demolizione di opera edilizia abusiva è sufficientemente motivato con l’affermazione della accertata abusività dell’opera, non potendosi ravvisare alcuna valutazione di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione in ragione del tempo trascorso dalla realizzazione delle opere abusive, posto che l’interesse pubblico alla repressione di un abuso è in re ipsa per cui, di fronte ad abusi edilizi risalenti nel tempo, non possono assumere rilievo differenti valutazioni, quali ad esempio quelle relative all’eventuale affidamento generato nel privato.
L’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, proprio in quanto atto dovuto e a contenuto vincolato, non solo non richiede l’esplicitazione di motivazione sul punto, ma neppure necessita di una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né di una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non sussistendo alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
L’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi sussiste anche in considerazione della rilevanza della tutela reale dei beni paesaggistici e ambientali che elide in radice qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, non residuando alcuno spazio per far luogo alla sola sanzione pecuniaria.

