Edilizia

Per “fiscalizzare” l’abuso edilizio occorre accertare l’impossibilità della demolizione

Il Consiglio di Stato esamina le fasi procedurali della demolizione di un edificio sopraelevato mediante copertura del terrazzo qualificata come "nuova costruzione"
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Per “fiscalizzare” l’abuso edilizio occorre accertare l’impossibilità della demolizione

Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 806 del 25 gennaio 2024, pone fine a un intricatissimo contenzioso tra una proprietaria di unità immobiliare ubicata al quarto piano di una palazzina prospiciente la piazza di un centro storico, i condòmini e il Comune competente. La questione al centro dell’attenzione dell’intervento è quella della “fiscalizzazione” dell’abuso edilizio.

Copertura del terrazzo difforme dall’autorizzazione

L’oggetto della controversia erano i lavori di copertura di un preesistente terrazzo a servizio dell’appartamento, sfociati nella realizzazione di un vano di complessivi mq. 13,72, in difformità dall’autorizzazione edilizia rilasciata per la risistemazione dell’immobile, previo avallo dell’assemblea condominiale, che aveva acconsentito alla proposta di gravare la proprietaria dell’appartamento di “tutte le spese relative alla sistemazione del terrazzo, a patto che tutti i restanti proprietari diano il loro benestare alla copertura del medesimo e che non intervengano impedimenti comunali“, riaprendo anche la canna fumaria corrente lungo il muro perimetrale sul medesimo lato.

L’intervento effettuato è invece consistito nella sopraelevazione dell’edificio in quanto intervenendo sul lastrico solare con una chiusura la proprietaria l’ha “inglobato” nel proprio appartamento. Per l’abuso era stata presentata una richiesta di sanatoria, respinta dal Comune con conseguente intimazione demolitoria per il ripristino dello stato dei luoghi, quale conseguenza necessitata della mancata legittimazione postuma dell’intervento.

Il procedimento era stato poi riaperto dal Comune, che aveva valutato positivamente le varie proposte avanzate dalla proprietaria, con alterni richiami alla sanzione, mai venuta meno, e sostanziali “aperture” alla ricerca di soluzioni alternative, da ultimo individuate nell’applicazione di quella pecuniaria. Alla fine, è sopravvenuto il parere favorevole alle proposte della proprietaria, della Commissione comunale per la qualità architettonica ed il paesaggio, che ravvisava nella demolizione, e a maggior ragione nel cambiamento, un danno estetico maggiore di quello che sarebbe conseguito al mantenimento dello status quo ormai consolidato. L’impossibilità, cioè, di individuare con esattezza lo stato di fatto legittimato nel 1926, ha portato ad indicare come preferibile il mantenimento dell’abuso per non alterare la situazione esistente.

La sopraelevazione dell’edificio

Secondo il giudice di merito, l’intervento effettuato doveva essere catalogato come “nuova costruzione” e non “ristrutturazione”. L’incremento di volumetria è stato realizzato effettuando una sopraelevazione, la cui realizzazione soggiace comunque ai limiti e alle condizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 1127 c.c. Pur non essendo stato ritenuto provato il pregiudizio statico riveniente all’intero edificio, è stata al riguardo dichiarata “la discontinuità con la linea orizzontale superiore del fabbricato, […] arretrata rispetto alla facciata condominiale” nonché connotata dalla presenza di “due finestre di forma e finiture diverse da quelle esistenti nei piani inferiori e disallineate rispetto alle stesse, determinando un quid disarmonico rispetto al preesistente a scapito del pregio estetico del condominio nel suo aspetto architettonico e un evidente peggioramento architettonico della piazza“.

L’effetto traslativo della proprietà

Inoltre, la proprietaria non era più legittimata a richiedere alcuna sanatoria, essendosi ormai verificato l’effetto traslativo della proprietà automaticamente correlato dal legislatore all’infruttuosa decorrenza del termine di 90 giorni per ottemperare all’ingiunzione a demolire.

Il Consiglio di Stato fa però notare che l’ordine di demolizione e l’atto di acquisizione al patrimonio comunale costituiscono due distinte sanzioni, che rappresentano “la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi dapprima esegue un’opera abusiva e, poi, non adempie all’obbligo di demolirla” (Corte cost., n. 140 del 2018).

Mentre la sanzione disposta con l’ordinanza di demolizione ha natura riparatoria ed ha per oggetto le opere abusive, per cui l’individuazione del suo destinatario comporta l’accertamento di chi sia obbligato propter rem a demolire e prescinde da qualsiasi valutazione sulla imputabilità e sullo stato soggettivo (dolo, colpa) del titolare del bene; invece, l’acquisizione gratuita, quale conseguenza dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e della relativa omissione, ha natura afflittiva (così come la correlata sanzione pecuniaria).

Prima della fiscalizzazione dell’abuso: le scansioni procedurali della demolizione

Dato che il responsabile dell’illecito, il proprietario ed i suoi aventi causa hanno sempre il dovere di rimuoverne le conseguenze, la sentenza distingue le seguenti fasi temporali:

  1. fino a quando scade il termine fissato nell’ordinanza di demolizione, questi hanno il dovere di effettuare la demolizione, che, se viene posta in essere, evita il trasferimento della proprietà al patrimonio pubblico;
  2. qualora il termine per demolire scada infruttuosamente, i destinatari dell’ordinanza di demolizione commettono un secondo illecito di natura omissiva, che comporta, da un lato, la perdita della proprietà del bene con la conseguente e connessa irrogazione della sanzione pecuniaria e, dall’altro, la sostituzione dell’obbligo di demolire il bene con l’obbligo di rimborsare l’Amministrazione, per le spese da essa anticipate per demolire le opere abusive entrate nel suo patrimonio;
  3. decorso il termine per demolire, qualora l’Amministrazione non decida di conservare il bene, resta la possibilità di un’ulteriore interlocuzione con il privato per un adempimento tardivo dell’ordine di demolire, che non comporta il sorgere di un diritto di quest’ultimo alla ‘retrocessione’ del bene, né fa venire meno la sanzione pecuniaria irrogata, ma può evitargli, da un lato, la perdita dell’ulteriore proprietà sino a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita se non è già stata individuata in sede di ordinanza di demolizione, nonché gli eventuali maggiori costi derivanti dalla demolizione in danno.

In linea generale, quindi, il proprietario non ha più alcun diritto a porre in essere la demolizione dopo la scadenza del termine dei 90 giorni, spettando alla discrezionalità dell’Amministrazione di valutare se coinvolgerlo ulteriormente nella stessa. Quanto alla possibilità di chiedere una sanatoria, l’art. 36, comma 1, del medesimo T.u.e., consente la presentazione della relativa istanza «fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative» e dunque prima della scadenza del termine indicato per demolire o ridurre in pristino ovvero – nel caso in cui ciò non sia possibile – prima dell’irrogazione delle sanzioni previste in alternativa dagli articoli 33 e 34.

Gli interessi contrapposti che la legge tutela

Nella prassi − osserva il Consiglio di Stato − “accade sovente che i provvedimenti ripristinatori rimangano lettera morta per incapacità, semplice inerzia, ovvero addirittura scelta consapevole dell’amministrazione procedente. La meccanicistica applicazione dei principi di diritto poc’anzi enunciati finirebbe dunque per determinare un incredibile quantitativo di situazioni nelle quali, a prescindere da qualsivoglia analisi del caso concreto, lo stato di diritto non corrisponde allo stato di fatto, a discapito delle più elementari esigenze di certezza delle situazioni giuridiche“. Per evitarle, il Consiglio di Stato ritiene che l’effetto acquisitivo, seppure immediato, sia da considerare sottoposto ad una sorta di ineludibile condizione sospensiva, da ravvisare nel formale accertamento dell’inottemperanza, notificato all’interessato.

Il rispetto di tali scansioni procedurali, dunque, costituisce il giusto punto di incontro fra i contrapposti interessi tutelati dal legislatore, ovvero la salvaguardia dell’ordinato sviluppo del territorio, di cui il previo titolo edilizio costituisce garanzia primaria, e la tutela della proprietà, destinata comunque a recedere laddove il titolare non sacrifichi al suo mantenimento il doveroso ripristino spontaneo dello stato dei luoghi.

Ritiene dunque il Consiglio che l’operatività “di diritto” dell’effetto acquisitivo allo scadere dei 90 giorni dall’ingiunzione demolitoria vada intesa esclusivamente a favore del Comune, ponendo il proprietario in una situazione di mera soggezione rispetto alle scelte del primo, che non gli consente più di demolire spontaneamente, salvo il primo non glielo consenta, espressamente o tacitamente, non addivenendo alla formazione del titolo sempre necessario per dare luogo ad un cambio di proprietà.

In che cosa consiste la fiscalizzazione dell’abuso

Un altro aspetto discusso nella sentenza è la “fiscalizzazione” dell’abuso, cioè la sua sostanziale monetizzazione,  un rimedio alternativo eccezionalmente concesso in luogo della demolizione. In particolare, si può accedere alla fiscalizzazione:

  • in caso di mancanza, totale difformità o variazione essenziale dal titolo riferito ad ristrutturazione edilizia (art. 33, comma 2, del dpr n. 380 del 2001);
  • a fronte di accertata difformità solo parziale dal permesso di costruire (art. 34, comma 2, e 2-bis, che ne ha esteso l’applicabilità anche agli interventi soggetti a Scia alternativa al permesso di costruire di cui all’art. 23, comma 01);
  • all’esito di un annullamento, giudiziale o in autotutela, del titolo stesso (art. 38). Ma non nell’ipotesi, più grave, di avvenuta realizzazione di una “nuova opera” in assenza di permesso di costruire o in totale difformità o variazione essenziale dallo stesso (art. 31).

Ferma restando la priorità sempre e comunque accordata all’opzione ripristinatoria, l’impossibilità di addivenirvi è affidata a più stringenti esigenze complessive di staticità e sicurezza della costruzione nel caso della variazione essenziale o totale difformità, mentre è circoscritta alla sussistenza di esigenze di salvaguardia in quanto tale della parte “buona” del manufatto, in caso di difformità parziale dal titolo, prescindendo, solo in tale ultima ipotesi, dalla tipologia di intervento effettuato (che dunque può anche non essere una ristrutturazione).

Fiscalizzazione dell’abuso come alternativa alla demolizione

La fiscalizzazione dell’abuso costituisce un “castigo” alternativo alla demolizione solo laddove l’abuso sia per così dire parte di un tutto, che comunque il legislatore consente eccezionalmente di preservare. Ciò avviene tipicamente sia nel caso in cui ci si discosti in maniera minimale dalle indicazioni del permesso di costruire, sia in quelle in cui, benché la divergenza sia corposa, si tratta comunque di un intervento su patrimonio edilizio preesistente.

In caso di opere eseguite su immobili vincolati non è ammessa alcuna fiscalizzazione, dovendo l’amministrazione competente a vigilare sull’osservanza del vincolo ordinare sempre la restituzione in pristino, indicando criteri e modalità per la relativa effettuazione. Nel caso invece di opere eseguite su immobili, anche non vincolati, ubicati nei centri storici, la individuazione della tipologia di sanzione da applicare, reale o pecuniaria, spetta all’amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali ed ambientali, che si esprime mediante un parere vincolante. Tale tipologia di atto, per il suo contenuto, ha valenza sostanzialmente decisoria, il che implica che il Comune deve attenersi a quanto stabilito dalla suddetta amministrazione. Esclusivamente nel caso in cui il parere non venga reso entro il termine previsto, la competenza si trasferisce all’amministrazione comunale.

Nel caso in esame, introducendo un autonomo concetto giuridico, anziché pratico/tecnico, di impossibilità demolitoria, e nel contempo avocando ad un proprio organismo consultivo l’espressione della scelta tra demolizione e monetizzazione, il Comune  ha violato l’art. 33, comma 4, del dpr n. 380 del 2001. Applicando la regola generale, infatti, avrebbe dovuto far verificare dai propri uffici tecnici la fattibilità del ripristino; applicando invece quella specifica dettata per i centri storici, previa istruttoria finalizzata comunque ad accertare la fattibilità tecnica del ripristino, avrebbe dovuto acquisire il preventivo parere della Soprintendenza, quale unico soggetto munito della richiesta terzietà per evitare la demolizione, seppure concretamente eseguibile, a tutela dell’assetto complessivo dei luoghi.

Lo stato legittimo dell’immobile

Lo “stato legittimo” dell’immobile (comma 1-bis, inserito nell’art. 9-bis, del dpr n. 380 del 2001 dal decreto-legge n. 76 del 16 luglio 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 120 dell’11 settembre 2020) riguarda una sua condizione permanente, preesistente alla stessa entrata in vigore della disposizione, da riferire a opere realizzate prima del 1967, o in epoca ancor più risalente, nei centri urbani poi dotatisi di un regolamento che richiedeva la licenza edilizia per l’edificazione, o per cui esiste solo un principio di prova di un titolo edilizio, il cui originale o la cui copia non è più rintracciabile.

Laddove tuttavia, come nel caso in esame, un titolo edilizio esiste ed è proprio lo “scostamento” dallo stesso e la sua richiesta di sanatoria che ha cagionato l’attivazione del procedimento sanzionatorio, è di tutta evidenza che “scavalcarlo”, cercando di immaginare la situazione allo stesso preesistente non è in alcun modo ipotizzabile, salvo introdurre una forma di improprio e generalizzato condono di tutte le modifiche intervenute medio tempore, legittimate o meno.

L’abuso infatti non è consistito nella realizzazione di un’opera ex novo, bensì conseguito al rigetto di una sanatoria. Ed è il contenuto di tale richiesta ad indicare, partendo dallo stato di fatto che si pretendeva di legittimare, lo sconfinamento rispetto al titolo rilasciato. In sostanza, la controversa consistenza del palazzo negli anni 1926/1927 non inficia la certa realizzazione nel 1983 di una copertura dapprima inesistente, tant’è che la proprietà aveva informato del relativo progetto l’assemblea condominiale, subordinandone la realizzazione all’avallo comunale.

In conclusione, il Consiglio di Stato, tenendo conto dell’ormai consolidato “principio della ragione più liquida“, corollario di quello di economia processuale, ha quindi confermato la sentenza del Tar con diversa motivazione, e il conseguente annullamento dei provvedimenti del Comune. Essi infatti sono stati adottati in violazione dell’art. 33, comma 4, del dpr n. 380 del 2001, non risultando accertata dagli uffici tecnici comunali l’impossibilità della demolizione, presupposto indefettibile della fiscalizzazione dell’abuso, in alcun modo surrogabile da giudizi di valore espressi dalla competente Commissione sulla qualità architettonica e il paesaggio, giusta la competenza in merito della sola Soprintendenza.

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