Edilizia

Certificato di agibilità, i requisiti e le condizioni per ottenerlo

L'agibilità non può essere conseguita nel caso in cui il titolo edilizio sottostante, seppure esistente, non possa considerarsi efficace
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Certificato di agibilità, i requisiti e le condizioni per ottenerlo
Il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 3836 del 17 maggio 2021, chiarisce le relazioni tra agibilità e regolarità urbanistico-edilizia. E lo fa intervenendo in una controversia tra un Comune e una Società che aveva chiesto e ottenuto dal Tar l’annullamento del rigetto dell’istanza di rilascio del certificato di agibilità riferito ad un complesso artigianale (compreso in una lottizzazione dichiarata abusiva), sostenendo che sulla richiesta si fosse ormai formato il silenzio assenso, essendo ampiamente decorsi entrambi i termini ivi previsti (30 o 60 giorni, a seconda che sia stato acquisito o meno il previo parere della Asl) dall’inoltro della relativa domanda.

La domanda incompleta impedisce la decorrenza del procedimento

Il Comune ha proposto ricorso contro la pronuncia del Tar, sostenendo che l’incompletezza della domanda di agibilità fosse idonea ad impedire la decorrenza del procedimento, escludendo quindi la possibilità di maturazione del silenzio assenso. La certificazione di agibilità, infatti, assorbe i requisiti di natura igienico-sanitaria, ma non si esaurisce negli stessi, riguardando anche la conformità urbanistica dell’immobile, nel caso specifico mancante. Il Consiglio di Stato ha dato ragione al Comune, approfondendo l’esame della tipologia di strumento urbanistico attuativo utilizzato in conseguenza dell’avvenuta attivazione di un procedimento penale per lottizzazione abusiva, ovvero un Piano di recupero che la Società aveva disatteso. Rendendo così nullo il titolo edilizio precedentemente rilasciato e conseguentemente il rilascio del certificato di agibilità.

I Piani di recupero dell’edilizia abusiva

Per chiarire i rapporti tra agibilità e conformità edilizio-urbanistica nel caso specifico, la sentenza parte dall’inquadramento dei Piani di recupero, introdotti dall’art. 27 della legge n. 457 del 5 agosto 1978, per attuare il riequilibrio urbanistico di aree degradate o colpite da più o meno estesi fenomeni di edilizia “spontanea” e incontrollata, legittimati, appunto, ex post. I Piani di recupero hanno sì l’obiettivo di “recupero fisico” degli edifici, ma collocandolo in operazioni di più ampio respiro su scala urbanistica, in quanto mirate alla rivitalizzazione di un particolare comprensorio urbano. A tali Piani si è fatto ampiamente ricorso per scongiurare la confisca dei terreni oggetto di lottizzazione abusiva. La scelta, infatti, di modificare l’assetto urbanistico per regolarizzare la cornice degli interventi di lottizzazione è stata intesa come un’implicita rinuncia all’acquisizione del bene. Ritenendone più consono, anche nell’interesse pubblico, il mantenimento nella disponibilità del privato, seppure in un assetto territoriale adeguato allo scopo.

Nuovo atto di pianificazione urbanistica

Nel caso in esame, pur ribadendo la legittimità originaria del permesso di costruire, nonché la presenza delle necessarie opere di urbanizzazione primaria, il Comune aveva inteso sanarne la portata inserendo in un nuovo atto di pianificazione convenzionata con la Società la previsione di nuovi interventi tra cui il tratto stradale funzionale all’intero lotto. Si tratta, quindi, di un accordo bilaterale che “completa” le scelte urbanistiche dell’Amministrazione impattando sulla regolarità dell’attività edificatoria dei privati. Tale convenzione, stipulata tra un Comune e un privato costruttore, con la quale questi, al fine di conseguire il rilascio di un titolo edilizio, si obblighi a determinati adempimenti nei confronti dell’ente pubblico, non costituisce un contratto di diritto privato, non avendo specifica autonomia e natura di fonte negoziale del regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti. Ma si configura piuttosto come un atto intermedio del procedimento amministrativo volto al conseguimento del provvedimento finale. E dal quale promanano poteri autoritativi della pubblica amministrazione. A valle, dunque, si pone il provvedimento amministrativo; a monte, l’accordo funzionale alla definizione consensuale del contenuto del provvedimento finale, che si iscrive però nel procedimento di rilascio del titolo abilitativo edilizio ed è dallo stesso recepito. La mancata ottemperanza, da parte della Società, agli obblighi assunti nella convenzione, ha causato il diniego di agibilità da parte del Comune.

Permesso di costruire e certificato/dichiarazione di agibilità

Il preesistente permesso di costruire è stato ancorato in maniera postuma alla realizzazione di quanto previsto nel Piano di recupero a sanatoria; inoltre, l’agibilità, lungi dal costituire un subprocedimento separato da quello sotteso alla realizzazione di un’opera, ne rappresenta il punto d’approdo finale. Suggellandone la regolarità in primo luogo in quanto conforme alle autorizzazioni in forza delle quali essa è stata realizzata. I giudici riconoscono che, in passato, il legislatore ha usato il termine “agibilità” in un’accezione del tutto diversa da quella attualmente riconducibile alla richiamata disciplina urbanistica. Con ciò generando una certa confusione interpretativa ed atecnicità di linguaggio, in particolare in relazione a specifiche tipologie di immobili. Ad esempio, la certificazione, rilasciata dal Comune, dei requisiti di solidità e sicurezza che devono possedere i teatri e luoghi di pubblico spettacolo è denominata “licenza di agibilità”. Mentre la vecchia nozione di “abitabilità”, ovvero la fruibilità degli immobili a fini abitativi (art. 220 del rd. n. 1265/1934) è stata ricompresa nella omnicomprensiva “agibilità” riferita a qualsivoglia tipologia di edificio, non solo di natura abitativa (art. 24 dpr n. 380 del 2001) che attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati. Valutate secondo quanto dispone la normativa vigente. La presunta tassatività dell’elencazione non tiene tuttavia conto del fatto che il successivo art. 25, nell’elencare le declaratorie a corredo della richiesta di rilascio del certificato di agibilità, menziona espressamente la “conformità dell’opera rispetto al progetto approvato“. Ovvero, in buona sostanza, la sua regolarità edilizia e, conseguentemente, urbanistica.

Certificato di agibilità ricondotto alla Scia

Con il d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222, che ha ricondotto la certificazione di agibilità al regime della Scia, tale requisito di conformità è stato riportato sin nella norma definitoria (art. 24) che include espressamente la “conformità dell’opera al progetto presentato” tra le cose che il tecnico deve asseverare all’atto della presentazione della dichiarazione, unitamente peraltro alla sua “agibilità”.

Ai fini dell’agibilità il manufatto non deve essere abusivo

Dunque, ai fini dell’agibilità, è necessario che il manufatto o il locale sia assistito dallo specifico titolo edilizio abilitativo. E, più in generale, che lo stesso non rivesta carattere abusivo. Esigendosi, in tal modo, una corrispondenza biunivoca tra conformità urbanistica dei beni ospitanti l’attività commerciale e l’agibilità degli stessi. La dichiarazione di agibilità presuppone una molteplicità di valutazioni ulteriori rispetto a quelle che erano sottese al vecchio certificato di abitabilità. Il fatto che il Sindaco possa intervenire (art. 26 Tue) dichiarando la inabitabilità di un immobile, già certificato come agibile (art. 222 Tuls), dimostra le differenze tra i due istituti. Da un lato, la strutturale conformità del fabbricato a tutti i requisiti richiesti e, in parte, assorbiti nella conformità al titolo edilizio in forza del quale è stato realizzato. Dall’altro la sua (sopravvenuta) carenza di requisiti igienici tale da non consentirne l’occupazione a fini abitativi. Anche prima della riforma che ne ha ricondotto il conseguimento ad una mera segnalazione certificata, il procedimento di acquisizione della agibilità si connotava per la sostanziale attribuzione al privato richiedente dell’onere di dimostrare la regolarità di quanto realizzato. Salvo richiedere comunque al Comune di “certificarne” i contenuti. Solo a seguito della acquisizione dell’agibilità, peraltro, può considerarsi legittimo l’utilizzo in concreto dell’immobile in conformità con la propria destinazione d’uso. Seppure il relativo illecito sia punito con una sanzione pecuniaria di non particolare entità.

Il decorso dei termini e il silenzio assenso

Affinché possa decorrere il termine per la maturazione del silenzio assenso è necessario che la domanda presentata sia completa delle indicazioni previste dal comma 1 dell’art. 25 del dpr n. 380 del 2001, in particolare della declaratoria di conformità al progetto edilizio, iniziale ed integrato con gli obblighi assunti all’esito dell’adozione del nuovo Piano attuativo. La disciplina della certificazione dell’agibilità, infatti, non configura una vera e propria ipotesi di silenzio assenso in senso tecnico. Ma dà invece luogo ad una sorta di legittimazione ex lege, che prescinde dalla pronuncia della Pubblica amministrazione. E che trova il suo fondamento nella effettiva sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per il rilascio del titolo. Non può quindi ipotizzarsi la decorrenza del relativo termine in mancanza dei requisiti essenziali della domanda, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza con riferimento, ad esempio, alla materia del condono edilizio. Nel caso in esame, l’attività edilizia della Società era stata pure stigmatizzata con una esplicita diffida a proseguire i lavori, dai contenuti sostanzialmente anticipatori del successivo diniego di agibilità.

Niente agibilità se il titolo edilizio non è efficace

D’altra parte, ritenendo certificabile come agibile anche un immobile abusivo, purché conforme ai requisiti igienico-sanitari e di risparmio energetico previsti, si finirebbe per trasformare la relativa qualificazione in una sorta di ulteriore sanatoria cartolare, ovvero, al contrario, per svuotarne completamente la portata. Stante che la natura permanente dell’illecito edilizio ad essa sottesa non ne impedirebbe comunque l’assoggettamento al previsto regime sanzionatorio. In sintesi, la violazione di una convenzione accessiva ad un Piano attuativo urbanistico impatta sulla regolarità dei lavori eseguiti, condizionando la validità del titolo. Essendo la agibilità la summa del possesso dei requisiti sia igienico-sanitari che urbanistico-edilizi di un edificio, essa non può essere conseguita nel caso in cui il titolo edilizio sottostante, seppure esistente, non possa considerarsi efficace. Sicché non ne è necessario il preventivo annullamento. La sua avvenuta formalizzazione, da parte del Comune, in assenza dei richiamati requisiti, non sana comunque l’abuso edilizio. Con riferimento al quale permangono i poteri sanzionatori attribuiti al Comune. Consiglio di Stato, sentenza n. 3836 del 17 maggio 2021
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