Con The Brutalist l’architettura arriva nelle sale
The Brutalist, film di Brady Corbet con protagonista Adrian Brody, è candidato a 10 premi Oscar. Con lui, l’architettura e la dolorosa storia di un architetto escono dai confini disciplinari diventando protagonisti di un racconto cinematografico dai molti, e difficili, temi. Cosa più unica che rara, sono al centro di una pellicola monumentale e pluripremiata.
The Brutalist arriva infatti agli Oscar dopo essersi aggiudicato il Leone d’Argento per la regia di Brady Corbet al Festival del Cinema di Venezia 2024. E negli Stati Unti si è appena aggiudicato tre Golden Globe: miglior film drammatico, miglior regista e miglior attore in un film drammatico per il suo protagonista.
Sfondo è il mondo lasciato dalla seconda guerra mondiale. Un lungo e solido filo rosso unisce l’Europa dilaniata e gli Stati Uniti, terra di speranza e ricostruzione, rinascita e nuove possibilità per moltissimi profughi in fuga dalle persecuzioni. È stato seguito anche da molti architetti, la cui seconda vita, tra progetti e vicende ha contribuito alla rifondazione dell’architettura contemporanea. I più famosi e rappresentativi sono Walter Gropius, Marcel Breuer e Ludwig Mies van der Rohe. Le loro emigrazioni, dopo il lavoro che ha reso unica e fertilissima l’esperienza di un Bauhaus chiuso nel 1933, sono fonte primaria di ispirazione per le vicende di un protagonista frutto di invenzione.
The Brutalist: la trama
Al centro del film è l’ex architetto del Bauhaus László Tóth, un ebreo ungherese scampato all’Olocausto che nel 1947 emigra negli Stati Uniti e si trasferisce a Filadelfia. Qui viene ospitato dal cugino e inizia a lavorare nel suo negozio di mobili dedicandosi al design d’interni. Dopo che il progetto per la ristrutturazione dello studio del magnate Harrison Van Buren finisce male, viene cacciato di casa e inizia a vivere nella miseria sviluppando anche una tossicodipendenza. Viene salvato dall’apprezzamento, tardivo, del suo lavoro da parte di Van Buren che lo ingaggia per la realizzazione di un ambizioso progetto, il nuovo Istituto Van Buren.
Mentre i lavori procedono tra molte difficoltà, Tóth riesce a ricongiungersi con la moglie Erzsébet, che ha condiviso con lui l’esperienza dei campi di concentramento a cui è sopravvissuta con gravi danni fisici e psicologici, e la nipote Zsófia, rimasta orfana.
La seconda parte degli anni cinquanta coincide con un nuovo momento di crisi. Il progetto dell’Istituto viene interrotto e Tóth, deluso e amareggiato, si trasferisce con la famiglia a New York. La decisione di Van Buren di riprendere i lavori porta nuovamente l’architetto, che nel frattempo ha iniziato a lavorare nella nuova città, a cedere a un progetto divenuto un’ossessione che avrà un epilogo tragico.
Il film si conclude con la retrospettiva dedicata alle opere di László Tóth, ormai vedovo e trasferitosi in Israele, alla prima Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, diretta nel 1980 da Paolo Portoghesi. Zsófia, nel ruolo di portavoce, legge un discorso dello zio in cui il progetto dell’Istituto, ispirato ai campi di sterminio, diventa strumento per esorcizzarli.
L’architettura del film
Le opere, create appositamente per il film, sono frutto del lavoro della scenografa Judy Becker, a cui si devono sia i set che l’ideazione dello studio e dell’Istituto Van Buren. Le sue fonti di ispirazione sono molteplici. Art deco ed estetica Bauhaus combinata con la sensibilità nordamericana del dopoguerra hanno prodotto la trasformazione dello studiolo. Scaffalature in legno alte fino al soffitto circondano, al centro della stanza, una sedia cantilever in tubi d’acciaio e fettuccia in pelle ispirata alle sedie di Marcel Beruer.
Louis Kahn con il suo Salk Institute e il Johnson Wax Building di Frank Lloyd Wright, insieme alle opere architettoniche di Tadao Andō e dello stesso Breuer, guidano invece l’ideazione dell’Istituto. Impostato su una pianta cruciforme, è presente solo in frammenti in un film realizzato con un budget relativamente basso. È immaginato come un monumentale monolite in cemento armato arroccato su una collina. Nei bracci, dalla forte linearità e razionalità che ricorda l’organizzazione dei campi di concentramento, le funzioni comunitarie sono ospitate da stanze claustrofobiche con alti soffitti. Al centro, una cappella.
Un’accoglienza molto tiepida da parte degli architetti
Osannato dalla critica, The Brutalist non è tuttavia stato accolto con molto calore dagli architetti. Al centro della critica avanzata, ad esempio, nel podcast Why the Brutalist is a Terrible Movie (Architecture Writer Anonymous) è una rappresentazione vecchia e poco attuale dell’architetto, che perpetua il cliché di una creazione geniale, sofferta e solitaria non aderente alla realtà.
Altro dubbio riguarda la credibilità di un’accoglienza molto tiepida di un architetto considerato tra i migliori dell’Ungheria da parte di una nazione che aveva ben metabolizzato il modernismo. Gropius, arrivato negli Stati Uniti, prosegue l’attività progettuale e insegna all’Università di Harvard. Anche Mies van der Rohe prosegue brillantemente la sua carriera e diventa docente all’Illinois Institute of Technology.
Altra incongruenza evidenziata è la celebrazione della carriera di un Tóth ormai anziano all’interno di una Biennale molto lontana, non solo temporalmente, dal Brutalismo e dai suoi esiti.
