L’insostenibilità del modello di sviluppo alimentare e alcuni falsi miti
Agricoltura e agroalimentare
L’insostenibilità del modello di sviluppo alimentare e alcuni falsi miti
La cattiva notizia è che il sistema mondiale del cibo inquina il nostro pianeta e che questo impatto negativo spesso viene sottovalutato. La buona notizia è che se metteremo in atto nuovi comportamenti, l’inquinamento del pianeta diminuirà sensibilmente.
Due studi pubblicati nel 2020 sono giunti alla medesima conclusione: il sistema del cibo – che può essere inteso come l’insieme delle attività di coltivazione, raccolto, lavorazione dei prodotti, imballaggio, trasporto, vendita, consumo e per finire gestione dei rifiuti generati – inquina il pianeta in maniera considerevole.
Come può essere quantificato l’impatto del cibo sulla salute del Pianeta? E che tipo di conseguenze può avere nel medio-lungo periodo?
Secondo il primo dei due studi, l’agricoltura e l’uso del suolo e delle foreste sono responsabili del 24% circa delle emissioni globali di gas serra. A fronte del 25% generati con la produzione di elettricità e di calore, del 21% dell’industria, del 14% dei trasporti e del 16% dagli edifici e altri usi energetici (IPCC,2014).
Tuttavia, se consideriamo l’intero sistema del cibo, quindi comprese le emissioni derivanti da agricoltura e uso del suolo, trasporto, confezionamento, lavorazione, vendita al dettaglio e consumo, compresi gli sprechi alimentari ed i rifiuti generati, questo è responsabile dal 21 al 37% delle emissioni di gas serra di origine antropica ogni anno.
L’obiettivo dell’Accordo di Parigi
Tutto ciò si ripercuote sulla capacità di rispettare gli impegni nazionali dichiarati dai Governi di riduzione delle proprie emissioni di gas serra in linea con gli Accordi di Parigi del 2015.
L’accordo di Parigi persegue l’obiettivo di limitare ben al di sotto dei 2 gradi Celsius il riscaldamento medio globale rispetto al periodo preindustriale. Puntando a un aumento massimo della temperatura pari a 1,5 gradi Celsius.
Figura 1 Nell’immagine sono presentati tutti gli elementi del sistema del cibo.
Di per sé, il rispetto degli obiettivi è già molto difficile, ma la tesi del secondo dei due studi citati si spinge ben oltre. Anche se le emissioni di combustibili fossili venissero immediatamente azzerate, le attuali tendenze nei sistemi alimentari globali impedirebbero il raggiungimento dell’obiettivo di limitare il riscaldamento del pianeta a 1,5 ° Celsius.
Ciò implica che la macchina del cibo è oggi quella che va riformata per prima se vogliamo davvero affrontare il riscaldamento climatico.
In particolare, lo studio del WWF contiene molte indicazioni rivolte direttamente ai policy-makers che dovrebbero imparare a tenere in debito conto le emissioni prodotte dal sistema del cibo. Con l’avvertenza che il computo di tali emissioni, e il peso relativo di ciascuna componente del food system (vedi la Figura n. 1) cambia anche considerevolmente da Paese a Paese. Ed è strettamente connesso alla struttura socio-economica ed alla cultura alimentare del territorio.
Che cosa dobbiamo fare per invertire la rotta? Dalla consapevolezza alle nuove tecniche agricole
Tutti noi, quando ci siamo cimentati con la necessità di ridurre il nostro consumo quotidiano di cibo, abbiamo dovuto per prima cosa iniziare un percorso di consapevolezza: cominciare ad avere un’idea più chiara di ciò che contenevano il frigo e la dispensa, di quanto e come riempivamo il nostro piatto.
Anche a livello globale, l’avvio dell’inversione di rotta passa per prima cosa dall’acquisizione della consapevolezza – a tutti i livelli: imprese, cittadini, governi nazionali ed istituzioni transnazionali – della vastità e della complessità delle attività umane inerenti il sistema del cibo per arrivare a calcolare l’impatto in termini di CO2 di ciascun alimento della dieta di un determinato Paese.
Fanno parte di tale complessità:
i rischi e i pericoli connessi ai sempre più frequenti eventi atmosferici estremi;
l’aumento delle zone del Pianeta dove non viene prodotto cibo sufficiente per le popolazioni che lo abitano;
l’enorme tendenza allo spreco alimentare di diffuse parti del Pianeta, che vanno di pari passo con alte percentuali di persone in sovrappeso o addirittura obese;
l’intensività di molte coltivazioni ed allevamenti, che hanno un enorme impatto sull’ambiente, sulla sua qualità e sulla sua salubrità.
Le azioni suggerite dal WWF
Proprio in relazione a quest’ultimo aspetto, il documento del WWF sostiene che con adeguate tecniche agricole, di allevamento e di uso del suolo, si potrebbero ottenete riduzioni annue di emissioni di gas serra di 7,2 miliardi di tonnellate di CO2 equiv. all’anno. E, riducendo le perdite di cibo, diminuendo e migliorando la gestione dei rifiuti, si potrebbe ottenere una ulteriore riduzione di 1,8 miliardi di tonnellate di CO2 equiv. all’anno, che, insieme, contribuirebbero per circa il 20% al taglio dei gas serra necessari per la neutralità carbonica al 2050.
Ogni proposta relativa al “sistema del cibo” non può prescindere dalle specifiche realtà territoriali. E deve tener conto delle vocazioni e delle caratteristiche produttive, delle abitudini alimentari e delle gestioni degli scarti e dei rifiuti.
Un’analisi che, in vista dell’aggiornamento del piano nazionale di misure per il clima, andrebbe fatta anche in Italia dove, fra l’altro, il sistema del cibo ha un grande rilievo anche economico.
Ma non bastava mangiare a km zero?
Un articolo dal titolo Environmental impacts of food production ci dice che no, non è sufficiente, e si spinge ancora più in là: “You want to reduce the carbon footprint of your food? Focus on what you eat, not whether your food is local”.
Nell’articolo si sostiene che “mangiare locale” – una logica raccomandazione che si sente spesso, anche da fonti importanti, comprese le Nazioni Unite – se non contestualizzata, e non adeguatamente spiegata, non rappresenta altro che fumo negli occhi. Il motivo è presto detto. Mangiare cibi prodotti a Km zero sarebbe una pratica virtuosa soltanto se si dimostrasse che il trasporto (che sicuramente ha un impatto ambientale) è responsabile di una quota importante dell’impronta di carbonio finale del cibo. Peccato che la realtà, per la maggior parte degli alimenti, sia diversa. Secondo l’articolo le emissioni di gas serra generate dai trasporti costituirebbero una quantità modesta delle emissioni prodotte dal “sistema del cibo” e, in ultima analisi, essere consapevoli di ciò che mangiamo (e di come il cibo viene prodotto) è molto più importante del luogo da cui proviene il cibo.
Non conta soltanto il trasporto
Occorre, in sostanza, prendere in considerazione non solo il trasporto (e l’aspetto psicologico: i camion li vedi andare avanti e indietro, e istintivamente pensi all’inquinamento atmosferico che producono), ma tutti i processi nella catena di approvvigionamento dopo che il cibo ha lasciato l’azienda agricola (tecniche produttive, lavorazione, vendita al dettaglio e confezionamento. Aspetti che contengono una dose di inquinamento nascosto che, tuttavia, non viene percepito).
In definitiva, che io compri la carne dall’allevatore locale o da uno lontano a rendere impattante l’impronta di carbonio del mio pasto non è tanto il trasporto (che comunque ha un suo impatto), quanto il fatto che io utilizzi della carne di manzo.
Lo studio calcola le emissioni di CO2 per tipologia di cibo.
Ci sono molti cibi differenti in grado di comporre la nostra dieta, ed hanno un impatto sull’ambiente in termini di emissioni inquinanti molto diversificato: produrre un chilogrammo di carne bovina emette 60 chilogrammi di gas a effetto serra (equivalenti di CO2), mentre i piselli emettono solo 1 chilogrammo per kg. Ciò perché tutti gli alimenti di origine animale tendono ad avere un’impronta maggiore rispetto a quelli di origine vegetale. L’agnello e il formaggio emettono entrambi più di 20 chilogrammi di equivalenti di CO2 per chilogrammo. Pollame e maiale hanno impronte inferiori ma sono comunque superiori alla maggior parte degli alimenti a base vegetale. Rispettivamente con 6 e 7 kg di CO2 equivalenti.
L’articolo conclude che, indipendentemente dal fatto che si paragoni l’impronta degli alimenti in termini di peso (ad esempio un chilogrammo di formaggio contro un chilogrammo di piselli), di contenuto proteico o di calorie, la conclusione generale è la stessa. Gli alimenti a base vegetale tendono ad avere un’impronta di carbonio inferiore rispetto a carne e latticini. In molti casi un’impronta molto più piccola.
La consapevolezza (non solo) prima di cena
Visto da questo punto di vista, il problema appare, paradossalmente, di più facile soluzione.
Abolire le ipocrisie, documentarsi, e cercare di agire di conseguenza, ognuno con i propri limiti, ognuno a modo suo. Ma occorre agire.
Sembra essere questo il leitmotiv del recente saggio di Jonathan Safran Foer, “Possiamo salvare il mondo prima di cena”, con il quale punta il dito su un certo modo di fare giornalismo (lato attivo) e di interpretarlo (lato passivo), che alimentano un “pensiero isterico”. Un circolo vizioso nel quale il cittadino si imbottisce di dati sul cambiamento climatico, che spesso non è in grado di decifrare fino in fondo (anche per la mancanza di qualcuno in grado di spiegarsi efficacemente), aumentando il tollerabile livello di ansia. Ci sentiamo individui impotenti di fronte a processi globali che sembrano appunto inarrestabili indipendentemente dai nostri comportamenti virtuosi.
L’esperienza e la lezione di Foer
Attraverso la forma del saggio, Jonathan Safran Foer cerca di alleviare il nostro senso di frustrazione raccontandoci di un anno della sua vita, nel quale si stava interrogando molto in profondità su quello che avrebbe potuto fare in prima persona per lottare contro il cambiamento climatico. A quali conclusioni è giunto?
La letteratura scientifica – sottolinea Safran Foer – ci ha spiegato tutto quello che si dovrebbe fare “ma io, sinceramente, non sono in grado di fare tutte queste cose […] sembra poco, ma è un punto di partenza piuttosto buono, anche per iniziare a perdonare noi stessi e perdonare gli altri, abolendo l’ipocrisia reciproca e cominciando a fare dei veri tentativi”.
La sostenibilità è un percorso lungo, che non termina mai e che richiede pazienza, tempo e consapevolezza. La consapevolezza, tornata alla ribalta nella settimana della kermesse canora più famosa d’Italia, quando – fra una canzonetta e l’altra – una giovane protagonista ha affermato, in un contesto insolito, ma forse proprio per questo con un riscontro più forte, che “l’importante non è sentirsi sempre all’altezza delle cose, ma farle. Essere all’altezza, adesso, non è più un mio problema, è solo un punto di vista”.
Non importa quanto difficile sia, o meglio possa sembrare: l’importante è cominciare a fare qualcosa. Consapevolmente.